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Carme barbaro

Per tutta la vita ho cercato di capire, anzi di compenetrare l’incantesimo agghiacciante che ha alterato per sempre il secolo in cui vidi la luce. Nato poco appresso alla metà del secolo, avvertii da subito il peso di una specie di deliquio che gravava sulla coeva umanità dalla notte precedente il mio avvento. Un deliquio mistico-terroristico, per così dire, come se da quella notte retrostante ed ignota alitasse una specie di estasi maligna, qualcosa di rovesciato che avanzava al contrario di tutto ciò che appariva come il bene e la felicità. E il bene e la felicità erano per me bambino le categorie primarie di tutto ciò che vedevo e sapevo, come si deve all’infanzia. Ma c’era quest’ombra che premeva da retro. Qualcosa che era accaduto e sul quale si stendeva un silenzio colpevole, grondante un rimorso vergognoso, che non si sputava fuori. Cos’era, cosa è stato questo mistero atroce, indicibile, inspiegabile?…
Oggi, nel consacrato “giorno della memoria” (il 27.01.2015), bisogna almeno tentare di trovarla quella definizione, cercare di dire l’indicibile, spiegare l’inspiegabile. Perché l’inspiegabile è calato sul mondo e lo ha per sempre sovvertito. 
Il tema è quello della mutazione. Di una affezione cioè, che penetra profondamente nei codici comportamentali e razionali dell’uomo e li sovverte. Una mutazione all’incontrario, e in quanto tale, considerato che la natura muta per adattamento, ossia per migliorare i propri requisiti di base, ci troviamo di fronte ad una mutazione in senso antiorario, una mutazione contro-natura. È questo che atterrisce, questo dietrofront rinunciatario e passivo che, solcando un oceano di cadaveri, si retrograda da sé, verso ignote, arcaiche preistorie.
A Francoforte sul Meno nel 1937 va in scena in prima assoluta, diretta dal suo autore, la raccolta musicale del “Carmina Burana ”, una collezione di testi poetici medioevali, in latino e in tedesco maccheronico e di impronta goliardica, ripresi e musicati dal compositore Karl Orff. Questi, di formazione romantica e poi espressionista, inaugurò con tale opera un suo corso peculiare che non avrebbe più smesso. Non per nulla rigettò ogni sua opera precedente e affermò con entusiasmo essere quivi rappresentato l’apice del suo sforzo creativo. È un’opera dominata da un impeto timbrico che fa grandiosamente rimbombare un titanico apparato sinfonico-percussionistico, al disotto di un canto fosco, elementare, quasi sempre gridato.
Nonostante “certe” affinità, ai nazisti non piacque un granché (troppo sesso e troppo Jazz – ossia, ritmo -, a loro vedere) e tuttavia si trattò dell’unica opera di cultura “alta” (o semi-alta) che emerse ed ebbe successo sotto l’ala lugubre del terzo Reich. Davanti a quest’opera, pur seducente e trascinante, viene da chiedersi: già, ma cos’è, com’è fatta la musica?.
Noi conosciamo la musica attraverso il suo assetto su scala delle sette note. Questi sono toni differenti che, sulla base di un rapporto numerico armonioso, vengono codificati su una scala equidistante. Dobbiamo a Pitagora questo primo ordine sistematico dei suoni. È ovvio che la primigenia vocazione del mondo sonoro è quello del canto, cioè della melodia. E il canto trova via via dei “compagni” strumentali, dapprima piuttosto semplici, originari, come le percussioni, poi sempre più articolati e raffinati. Strumenti che cominciano a elaborare un tessuto sonoro su cui adagiare il canto. Un tessuto non necessariamente statico, ma spesso mosso e articolato come una serie di onde del mare. È il tessuto armonico,  la nascita dell’armonia. Quando diverse voci melodiche e armoniche si incontrano, la musica diviene dialettica. Nasce il contrappunto. Il contrappunto è come la logica: tesi, antitesi e sintesi e tocca il suo apogeo, non per caso, quasi in simultanea alla logica hegeliana. E lo tocca in uno dei suoi esiti più alti. Sotto l’ovvia egida di Johann Sebastian Bach. Dopodiché, questa tale articolazione duale della logica musicale tende a dipanarsi in una forma che ne esalta il senso narrativo, compiuto e spirituale al massimo grado. È la “forma-sonata”, nel cui accanito dialogo trascendentale ritroviamo, via Beethoven ed espresso in musica, tutto l’universo gnoseologico della ragione, da Socrate in poi.
Ecco, Orff rinuncia deliberatamente a questo tesoro. Nella sua opera “medioevale” non v’è contrappunto, non la dialettica, non la logica. Egli risale a valenze originarie, decontaminate dal raziocinio speculativo del Logos, spogliate del principio estetico del bello come apparenza dell’ideale. Il suo è un bello”barbaro”, aurorale, tumultuoso, che nella sua frenetica elementarità, osanna le radici corporali, sensuali, telluriche dell’umano, dando libero accesso agli istinti primevi più che a un “dekor” borghese, ritenuto (da Nietzsche, e magari a ragione) filisteo ed inautentico. Approda così ad una sorta di fragorosa risata goliardica che, privilegiando gli appetiti dei sensi, precipita in un “ossario” alla De Sade, in cui i contenuti della reazione (al cammino rivoluzionario dell’episteme) si esprimono come vendetta goliardica e nichilista dei sensi nel massacro della ragione e di chi ne dispone. In questo senso, nel senso cioè di una rinuncia ad un sapere che tuttavia è comunque nelle proprie corde; in questo rimontare ad un arcaismo, per altro falsificato, che esalta il contro-divenire del discernimento, in una “terribile” apoteosi pulsionale, questa è musica nazista.  
Il nazismo, aldilà della derivazione etimologica dal nazionalismo, si illustra proprio così, come  sistematica negazione della ragione, cioè, della logica-sistematica. È irrazionalismo eletto a sistema. Una struttura fallace e cannibalica, che finisce fatalmente per divorare se stessa.
 
Cos’altro siamo noi, se non questa ragione, questo Logos che ci pungola in cuore? E coloro che si abbandonano alla “ebbrezza infernale” (Thomas Mann), non credono forse anche loro, nella loro miope, oscura, feroce smania di primeggiare, di “avere ragione”? Ossia, di detenere loro, ottuse belve antropomorfe assetate di sangue e di potere, lo scettro del Sapere? Cioè, di sapere loro, asini ignoranti, quello che si deve fare? Essi piegarono la ragione fino a ribaltarla, inducendo quella atroce mutazione che, affannosamente, cerchiamo di spiegarci, di rendere possibile. 
Fatto sta che agli albori del ventesimo secolo cominciò a propalarsi un problema profetico. Ci si pose a congetturare intorno a presunti guadi messianici che lo Zeitgeist sembrava “pontificare” sul fiume della storia. Sembrava così che, dai vari fronti speculativi, s’aprissero varchi insospettati verso improbabili orizzonti incantati, che avrebbero per sempre segnato una svolta definitiva per l’essere, finalmente affrancato dagli spettri della miseria e del pregiudizio. La psicoanalisi poteva dar conto anche delle più raccapriccianti aberrazioni, schiarendole con la luce analitica della scienza gettata sulle ombre del subconscio. Artisti s’invaghirono di miti lontani e andarono alla ricerca di un’essenza esotica, essendosi quella locale dissolta sotto la pressione del “ciclo produttivo” e della sua laica fame di soldi. Apparvero “profeti” un po’ goffi, da quelli di Gibran a quelli “romantici” di Hesse. Spiccò il mito di Zarathustra sul cielo sempre più grave d’Europa, su cui la doppia catastrofe mondiale iniziava a sferrare piccole cariche d’avvertimento. In questo clima ferveva una sorta di febbre generale cui il grande Nietzsche riuscì ad assegnare un nome: trasvalutazione.
Ora, qui “trasvalutazione” vale per molto di più che “rivoluzione”. La rivoluzione sancisce che ai falsi valori di classi dirigenti corrotte e decadenti, si sostituiscano i valori autentici di chi tale non è, ossia la classe maggioritaria dei subalterni, sfruttati e beffati. In tale rivendicazione di valori autentici, la rivoluzione è ancorata a presupposti di legittimità e di realtà che si riferiscono al concetto del “diritto universale”, inteso come valore perpetuo, svincolato dal particolare. La trasvalutazione invece rivendica l’affrancamento della realtà, anche scomoda e magari disumana, dalla gabbia morale in cui la si vuole imprigionare, onde frenarne le eventuali derive. In tal senso, essa è puntata principalmente contro l’impero del patriarcato e la coercizione del super-io. Che si dovesse “uccidere” – simbolicamente -  il proprio padre per addivenire  all’autocoscienza e alla maturità, era uno dei presupposti dell’analitica freudiana. Un risultato che si raggiunse solo negli anni ’60 del Novecento, innescando per altro ulteriori problematiche socio-psicologiche. E che i freni della morale dovessero in  qualche maniera evolversi, onde dar luogo ad una libertà del corpo sin lì negata dalla storia, era assolutamente indilazionabile. E anche questo programma di quei lontani pensatori trovò attuazione soltanto assai tardivamente e solo nella realtà occidentale. Ma la trasvalutazione era un’arma a doppio taglio, e questo non possiamo esimerci di obiettarlo a Nietzsche. Perché c’era questo errore nella sua ermeneutica. Che la “verità” negata dal filisteismo piccolo-borghese (gutbürgerlich: in Germania fenomeno assai imperante nella struttura del microcosmo borghese, e riscontrabile persino nei nomi e nella lingua, come lo stile Biedermayer, o il termine “gemütlich”, che traduce la piacevolezza e la comodità del focolare domestico), coi suoi freni inibitori a sfondo moralistico, ebbene, questa verità negata è essa stessa un valore negativo. Nel senso che tutta l’area della coscienza è negativa (vedi: Dialettica negativa, di Adorno)  e che ogni effetto che cade all’interno di tale area è di per sé solo una tappa e può col tempo volgersi in dogma, tale e quale ai dogmi che abolisce. La verità rivendicata dalla trasvalutazione dei valori è negatività, ossia pensiero, figura, interpretazione. E se noi rovesciamo tutti i paradigmi del “bene”, tacciandoli di filisteismo borghese, rischieremo di evocare dall’abisso animale che ognuno di noi reca nei propri “sprofondi” altri paradigmi, ridestati dalle tenebre e “liberati” come mostri generati dal sonno della ragione. E anche questo fu il nazismo. In questa accezione le lezione del grande Nietzsche venne rapinata e piegata all’uso nazista. Il completo ribaltamento dell’assetto del discernimento, con l’inferno al posto del regno dei cieli: la cattiveria, la mancanza di misericordia, questo è vittorioso, non la pietas, o men che meno il diritto e la democrazia. E con una tale “pedagogia” in capo ad una sola generazione il mondo sprofonda nella distruzione (senza nominare il senso di auto-distruzione che si cela di regola nella malvagità: il sadico anela inconsapevolmente alla propria catastrofe, perciò si parla sempre di sado-masochismo). 
L’area della coscienza è negativa. La coscienza, il “sapere di essere”, si effettua attraverso il linguaggio. Il linguaggio, nella sua essenza necessariamente simbolica (un nome è per forza la rappresentazione di un oggetto), è il negativo del rappresentato: una cosa positiva è antitetica al proprio nome, suo negativo. Insieme sono la dialettica e il loro sommo grado è la sintesi. Tra negativo e positivo si instaura così un criterio (la sintesi), un discernimento che distingue fra bene e male. Entrambi questi due poli, nel loro simbolismo ermeneutico, sono, per così dire, “eterei”: è il soggetto che decide cosa è bene e cosa è male. La “verità” non sta da nessuna parte. Il soggetto decide, a seconda delle circostanze, cosa è vero e cosa no. La inversione dei due poli, mercé la trasvalutazione, resta sempre possibile. La verità resta sempre oscillante. In tal fluidità dei fondamenti, e attraverso l’ipnotismo massmediale di massa, si può arrivare a rovesciare il senso del buon senso e a far risplendere di luce edificante un’atrocità. Così si comincia a considerare virtuoso comportarsi da avanzo di galera e a dedicare a Dio malefatte raccapriccianti che, secondando la definizione di Dio, dovrebbero invece rinnegarlo e oltraggiarlo.  
E non c’è da rallegrarsi che tale stadio l’avremmo per sempre derubricato dall’album dei “pensierini” del genere umano. Altri regurgiti di abiezione sboccano da imprevedibili incrostazioni di fanatismo e ciò che è stato l’incubo, l’inferno, il male assoluto della storia, rispunta maledetto da altre crepe che non avevamo neanche subodorato.
 
La Vienna a cavallo tra l’otto e novecento è l’ultima capitale imperiale del Medioevo. In quanto tale è Antropolis, la city universale, poiché nel suo grembo formicolante si muove l’intero scibile d’occidente e anche d’oriente-  Österreich significa appunto “Impero d’Oriente” (dell’est).  La sua estensione e la sua posizione geografica, unitamente al tardo illuminismo della corte (che non gli impedirà di restare tuttavia imperiale anche nella gestione militare delle crisi territoriali), apre il campo ad una costellazione eccellente di intelligenze, con apporti culturali tedeschi, rumeni, ungheresi, bulgari, italiani, slavi eccetera, che la innalzerà ad un ruolo ineguagliato nella cultura del novecento. Un’altezza che neanche Parigi sarà in grado di contrastare. Checché se ne dica, in quello scorcio di due secoli, è Vienna l’hortus conclusus della conoscenza, perché l’accadere profondo, ossia non quello dell’apparenza, del glamour rumoroso delle mode e dei rotocalchi, è lì che trova il suo ombelico. Tanto che tutte le diramazioni delle “muse” viennesi diventano tutto il pensiero successivo. Da Freud a Wittgenstein, da Billy Wilder a Von Sternberg e Von Stroheimm, da Musil a Kraus, da Mahler a Schönberg eccetera, tutto il pensiero che diverrà trainante nel novecento nasce a Vienna, proprio al crepuscolo incombente del finis austriae. Persino il Thatcherismo, fenomeno liberal di fine novecento nasce laggiù, con Von Hayek. E anche Hitler e il nazismo vedono la luce sotto le insegne dell’aquila bicefala asburgica. È Vienna la capitale degli “ultimi giorni dell’umanità”, prima di Auschwitz. e del “tramonto dell’occidente”.
E proprio allo scadere del XIX secolo si accende a Vienna la stella della Secessione. Klimt, Olbrich,
Moser, Wagner fuoriescono dalla società delle belle arti e, sull’onda delle precedenti secessioni tedesche – Monaco e Berlino – fondano il loro sodalizio anti-accademico, rivoluzionario. Hanno in obiettivo il presente, lo svecchiamento, ciò che si chiamerà il Modernismo. Il loro linguaggio è lo Jugendstil. Il linguaggio della stilizzazione cioè. Un linguaggio orfico, creaturale, sintonizzato coi tempi profetici che vogliono alludere ad improbabili resurrezioni, forse proprio in conseguenza invece dei segnali luttuosi che s’addensano sui cieli d’Europa. Lo “stile giovane” è inteso sin nel nome a portare un respiro diverso, meno ammuffito e accademico e più universale nelle arti, tanto materiali che “alte”. Addita più a un modo di vivere che a un movimento artistico. Alle spalle della Wiener Sezession spira un vento “giovanilista” che vorrebbe porgere al nuovo mondo tecnologico che si viene imponendo un adeguato correlato estetico. Ora però, questo linguaggio nuovo, giovane e moderno mostra una sensibilità morbosa, estenuata; una stilizzazione quasi esoterica che fa un po’ pensare agli egizi, con la loro arte sepolcrale, ultraterrena. Somiglia più a una scenografia della fine che ad una allegoria iniziatica. Le figure umane, così come quelle  floreali, si allungano quasi oltre la propria anatomia e i gesti si fanno plateali, teatrali, con un che di funereo nel loro decadentistico appagamento. C’è un vento di tragedia compiaciuta sotto questa maschera del ringiovanimento. 
Ora, tutto il movimento che approda allo Jugendstil, o Art Nouveau, affonda le radici in un simbolismo che è a sua volta una germinazione consecutiva al romanticismo. E questo, pur allignando nella passione rivoluzionaria – valga per tutti l’eroico impegno di Byron, andato a morire in Grecia per coadiuvarne l’anelito alla libertà -, sprofonda di frequente in una sorta di lutto nostalgico, una specie di estasi psichedelica di resurrezione della storia, in cui questa risorge catartizzata e “catalizzata” dalle scorie della realtà. Una storia depurata e mineralizzata che si arresta difatti ai suoi capitoli iniziali e iniziatici, concepiti come effervescenti. Con un dettaglio insignificante: è inventata. Una meta-storia, epica e fittizia che insinua nel presente la presunzione “araldica” di un passato  che consiste di sola nostalgia, senza l’oggetto di cui si è nostalgici. Il che ha anche un nome: gusto arcaizzante…
(Questo fatto che questa ”storia” non esista ha per altro qualcosa a che vedere con la “verità” della trasvalutazione. Nietzsche voleva la verità vera dell’essere trasvalutando quella filistea della maschera sociale. Ora però, le cose sono vere in quanto – come scrisse il suo erede Heidegger. Ossia sono, cioè esistono, in quanto, cioè in quanto nominate. È la nomenclatura l’essere delle cose. Esiste ciò che è, è, nominato. Perciò, dobbiamo ammettere la verità del nominato: è vero quello che implemento nel linguaggio, nel sistema simbolico della semantica. Vale a dire: tutto ciò che nomino è vero. Anche la menzogna: ciò che è falso, lo è veramente, è una vera-menzogna. E se pongo alla base della verità gli istinti egoistici dell’animale-uomo depositato nell’inconscio di chiunque di noi, ecco servita la frittata nazista: trasvaluto all’indietro, solo la mia fame è vera.
Gli archetipi sono intercambiabili. La verità può esser posta in qualunque anfratto dell’essere, anche quello sadico. Ma se lo facciamo, dobbiamo tenere conto di questo: che poniamo una opzione nichilista nell’essere; che l’essere è in quanto nega se stesso, cioè la propria semantica, in favore della propria inerte incarnazione che serve ed è la conditio sine qua non di quella semantica. Così l’essere apre alla propria dissolutio, con un atto parlato e quindi etico che va contro la struttura etica dell’essere e quindi all’autodistruzione).
Il “gusto arcaizzante” sembra porsi come una costante irriducibile dell’essere. È persino possibile rintracciarne il filo tra i viluppi dell’antichità. Le ultime dinastie egizie, che guardavano con nostalgia e tenerezza alle prime. O i Romani, che si tendevano poeticamente ai Greci, con ammirazione e brama di imitazione. O ancora i Romani tardo-antichi, archeologi dei “se stessi” primigeni della prima Roma. Ma se tale gusto trova una importante conferma già in Cervantes come commedia, o in Tasso come tragedia, è alla finestra del romanticismo che bisogna affacciarsi per identificarlo con gli occhi dei contemporanei. Da tale finestra assistiamo ad un curioso passaggio di consegne:  il messaggio antichista, arcaizzante trapassa dalla latinità dei due succitati autori, o di un Dosso Dossi e dell’Orlando furioso, ossia dalla romanità da cui persino il nome “Romanticismo” deriva, al mondo gotico degli anglosassoni. I quali  vanno dapprima a cercare a Roma la santità dell’Occidente e della sua religione – i Nazareni, tedeschi -  e poi, con la confraternita inglese che muove da un figlio d’esuli italiani, Rossetti, e si rifà all’arte di prima di Raffaello, quindi italiana, ma sposta sull’estetica nordica l’accento drammatico della rappresentazione. Quindi ecco fanciulle malinconiche e filiformi affacciarsi da bifore gotiche, in un trionfo di colori autunnali e di foglie morte. Sono i Pre-raffaelliti, ultimo grande gemito romantico ancora aggrappato alla romanità cristiana. Cosi che accanto ai temi cristologici, cominciano ad accostarsi quelli shakesperiani, come l’Ofelia di Millais. Nel passaggio successivo allo Jugendstil affioreranno i temi sessuali e, più decisivo ed esplicito ancora, il mito fondativo, leggendario del grande Nord, il mito barbaro.  
Ora, che il Pre-raffaelitismo restasse ancorato a una certa tematica cristologica rientrava nella logica della visione romantica del Medioevo. Di un Medioevo trasfigurato nella santità e nel valore “cortese-paladino” del suo epos. C’era, nelle corde di tale trasfigurazione, l’anamnesi formativa di tutto un esprit sacro-romano-imperiale, costituitosi attraverso un poderoso e secolare sforzo gnoseologico di trapasso dalla teogonia pagana e barbarica, all’abbraccio del diritto, quello romano, della lingua, latina, e della religione cristiana, in una unità che aveva anche il senso di appaiare a quelle della gens romana la dignità dei popoli nordici. Com’è oramai risaputo, alla sensibilità nordica faceva riscontro una fede tragica, ove risaltava dolorosamente il contrasto tra il Fato, dominato dai demoni che soverchiavano non di rado il volere degli dèi, e il destino eroico degli uomini, condannati a soccombere, e tuttavia combattendo. Quando questa Spaltung (frattura) incontra le fede redentrice del Cristianesimo, vi si trasfonde, adducendo in un anelito la possibile strada di una salvezza.  
Ecco perché l’Anelito è una categoria così fondamentale dello spirito nordico. Proviene dalla metamorfosi medioevale dell’Occidente anglosassone, ove i valori antichi si scontrano, e poi si incontrano e si fondono con quelli latino-cristiani. E la frattura tra il Fato e l’estasi eroica si riproduce come dualità e divario tra il piacere sensuale, terreno, e la trascendenza, tragica e misteriosa, che sovrasta dall’alto. È detto che una delle scaturigini della imperiosa avanzata della civiltà occidentale sia conseguenza di questa miracolosa osmosi indolore fra le due culture che si intrecciano, quella greco-romana e latina e quella “barbarica” anglosassone. 
Il Pre-raffaelitismo, da un lato si riconduce alle origini cristiane, e quindi italiane, della cultura figurativa primigenia di quel Medioevo immerso in un’aura imaginifica ed irreale (sia pure di un Medioevo terminale, pre-rinascimentale), ma dall’altro lo decanta attraverso una stilizzazione fantasticante, assai prossima al “capriccio” visionario del Grande Nord. Non è un caso che un italiano, Rossetti, e un adorante di Venezia e Firenze, John Ruskin, ne siano promotori. E fino a che il Pre-raffaelitismo resta confinato entro questa recinzione spirituale, e ci resterà fino in fondo, attingerà da quelle sorgenti, si può dire, europee da cui la scienza e il pensiero d’Europa traevano quella formidabile spinta alla propria evoluzione. Si trattava delle radici dell’epica cavalleresca che, attraverso la “Gerusalemme liberata” e i coevi poemi rinascimentali e poi barocchi, passavano alla sensibilità oramai “borghese” di fine-ottocento il loro patrimonio originario d’imagerie. Ma era un brodo primordiale in cui galleggiavano indistintamente archetipi irrinunciabili di una Weltanschauung europea, insieme a simboli oscuri, che indietreggiavano sgomenti davanti alla propria stessa laica intelligentsia.
E l’universo-mondo del simbolismo ottocentesco fa da tetro motore ad una specie di revanche filistea che cova nel fondo di una rabbiosa reazione al pianeta invece alienante, ma vincente, della borghesia. Così il decorativismo quasi maniacale di Klimt e company diventa il vettore di una sorta di intossicazione visionaria, ove i sensi e le antiche divinità riesumano lo scettro di un potere arcaico, e rimontano come potenze delle tenebre o come düreriani “cavalieri dell’apocalisse”, sulle selle dei loro destrieri, per scontri stellari e millenari, alla conquista del Reich celeste. Il gesto eroico ed estenuato della linea Jugendstil introduce un’estetica pressoché funerea, in cui il bello è la morte (vedi: Schiele) e quell’aspersione che vien fatta su tutto ciò di un umanitarismo socialisteggiante suona un po’ a ludibrio in virtù del vero messaggio che viaggia su quella linea, quello del crepuscolo degli dèi (anche perciò del Finis-Austriae, allora in incubazione).
Così, dopo l’”estenuazione” klimtiana, arriverà Wagner, coniugando in senso barbaro quel simbolismo erotico-luttuoso… In tal guisa, il grimaldello pulsionale penetra nell’accurata “orologeria” dell’antica gnoseologia medioevale e la scardina, la fa retrocedere ad un paganesimo leggendario e senza metafisica, arpionato soltanto col gancio di una brama rabbiosa, violenta, vendicativa. Gli eroi tragici riconquistano la scena e gli dèi troppo misericordiosi sono detronizzati, umiliati, abbattuti,. Sul cupo orizzonte Jugendstil risplende neramente l’astro uncinato del Reich millenario…        
Il Romanticismo, il Simbolismo, “ismi” che recano in sé tracce e germi degenerativi, addirittura contro la volontà stessa dei “portatori sani”. Già prima degli “Eros e Tanatos” klimtiani, si avverte, per esempio in opere come “L’isola dei morti” di Böcklin il riemergere di un compiaciuto pensare tragico che rapporta agli antichi spettri “vichinghi”. Dentro, campeggia la morte come decorazione, iniettando in fantasticherie già esaltate dalla fase critica che attraversa l’occidente prima dei due rovinosi scontri mondiali, un plus di pulsione di morte, ben recepito d’altronde da Freud che, di lì a poco, la convaliderà come categoria dell’inconscio. 
Tuttavia il circuito del carme barbaro è qualcosa dell’essere che declina, e non necessariamente una Götterdämmerung “squisitamente” crucca. Siamo di fronte ad una categoria dell’essere che, pur di rigettare lontano da sé la propria responsabilità e maturità, rimonta ad età aurorali, del tutto immaginarie. E cadendo in balia di nostalgie incongruenti, si figura un “buon tempo antico” ove le anime immacolate degli avi conservavano un valore radicale, innestato sulle virtù innate di una stirpe, di un popolo, di una etnia pura e incontaminata… Già, solo che tutto ciò è frutto soltanto di fantasie postume e regressive, mentre risalendo al valore iniziatico delle primitive radici, si arriva alla violenza. Si arriva soltanto alla violenza, perché è il punto di partenza che è guasto. Tanto che i reazionari si richiamano sovente al concetto di devoluzione, da opporre a quello di rivoluzione. Ma una devoluzione c’è già stata e si chiamava Medioevo. L’età dell’angoscia cui  gli idealisti visionari e sostanzialmente fascistoidi, si raccordano come a una età mitica e dorata. E l’oro del Medioevo faceva da sfondo alle rappresentazioni sacre proprio per mostrare che quello non era il cielo, né le figure che vi galleggiavano erano terrene. La terra era dura e refrattaria, il cielo immaginato era quello di un altrove, di un luogo altro, non afflitto e affamato come il nostro. Un cielo teologico da opporre alla miseria e al dolore della condizione umana.
Così, possiamo già consentirci una minima trasvolata etimologica, saltando dai nazisti ai naz-isis. Chi sono e cosa fanno i naz-isis? Una risposta a tale domanda dobbiamo guadagnarcela, perché è pur vero che tutto è falso, nel nostro contesto, e che di conseguenza tutto ciò che comprendiamo e sottoponiamo a giudizio arriva dai media, da tutti i media, e che ognuno di questi tira in incognito da una qualche parte, aggiustando l’obiettivo a seconda delle necessità. E che perciò, per quanto ce ne consta, i nazisis potrebbero anche non-esistere… così come qualcuno nega l’esistenza dei Lager e lo sterminio di milioni di ebrei, rom, dissidenti eccetera… Ogni santa cosa è oppugnabile, possiamo persino rinnegare di esser qui, hic et nunc, a negare la negazione che siamo… Tuttavia, siccome il sapere è un sapere di sapere, possiamo azzardarci a dire che tutto ciò che è, è mediatico. L’essere è nel sapere d’essere e tale sapere è sempre trasmesso, è discorso, racconto, narrazione. La verità possiamo soltanto arguirla da una narrazione più verificabile, più ragionevole di altre. Soltanto il nostro discernimento può determinarsi ad abbracciare più il ragionamento di un pazzoide dell’isis che non quello dei suoi numerosi antagonisti. Nessuno può assicurarci che gli americani, o altri, non stiano lì a cantarcela più o meno nera di com’è, la faccenda, perseguendo loro un altro imperscrutabile disegno, magari “petrolifero”… Ma siccome questo discernimento non è che la conoscenza che possa concedercelo, non è dato altro che appellarsi a quest’ultima per tentare l’accesso all’unico sbocco, all’unica via d’uscita dall’esitante ambiguità del sapere, quella del buon senso. E il buon senso, onde discernere e sciogliere l’enigma, ci conduce laddove la conoscenza affonda le sue fondamenta. Ossia, nell’universo dei contenuti (e dei segni), dove il buon senso ci rivela il senso delle cose.
Le fondamenta arcaiche di gente come i cupi macellai nazisis, sono assurdamente morali. Compiono carneficine e atrocità d’ogni sorta in nome di Dio. E assumendo a legge “civile” una serie di regole spietate e primitive dedotte dalla religione (la Sharia). Ove è già pazzesca l’elezione a legge di testi religiosi, ma con l’aggravante che tali testi provengono dai deserti quasi preistorici di 15 secoli fa. Come se per calcolare, per esempio, lo spread o i tassi d’interesse ci avvalessimo della Magna Charta, o della “Pace di Dio”, legge medioevale che prevedeva che di sabato e domenica fosse vietato commettere ammazzamenti, furti, eccetera. E lì siamo già più avanti… Questo richiamarsi alle radici antropologiche di una ortodossia religiosa, sa già di carme barbaro e ci riallaccia alla riesumazione del mito tragico di Wotan e del Walhalla. Chi vuole solo uccidere e sopraffare, si rifà quasi di prammatica a divinità pre-razionali, ove tali comportamenti sono considerati devoti. Con affinità raccapriccianti tra nazisti e nazisis, come la soppressione dei deboli, gli eretici, gli omosessuali. E dal lato dell’estetica, i nazisis vanno persino oltre. Sono anche iconoclasti: nel loro rigurgito pre-razionale, persino le icone sono fomite di pregiudizio, come “ladre” di anime, o di spiritualità. Così entrano in  conflitto con le arti antichissime (loro contemporanee, quanto a livello mentale) dei Sumeri, dei Persiani, distruggendone il patrimonio  ereditario (templi, sculture). Vediamo così che da un atteggiamento antichista dell’animo, può persino scaturire una febbre devastatrice dell’arte, perché sarebbe sufficiente un pizzico di ulteriore fanatismo, mettiamo, in un pre-raffallita, per indurlo a far tabula rasa di tutta l’arte da Raffaello in su. Cosa d’altronde già avvenuta. Al seguito del Savonarola, un’ondata moralista si apprestò a distruggere molta arte rinascimentale, accusata di depravazione. Fra Bartolomeo, grande artista e frate contemporaneo nonché sodale del Savonarola, diede alle fiamme tutta la sua produzione, fattispecie nudistica, di prima della sua conversione.
Vediamo quindi che il carme barbaro è un archetipo comportamentale continuamente riemergente  da una attitudine che non è politica, ma antropologica. Si produce come una specie di vendetta dei sensi, della pulsione, nei confronti dell’ordine intellettuale attraverso cui l’essere tenta indefessamente di fornire la realtà di una interpretazione razionale che lo metta al riparo dal caos originario del mondo. Un processo rigettato dalla metà “animale” dell’uomo che, in soggetti, per così dire, “predestinati”, si consolida in un sogno di potere, intorno al quale i proseliti attecchiscono come api al miele. E questo spiega anche il problema dell’iconoclastia, ove non già una paura ancestrale dell’immagine come ladra di anime agisce, bensì il semplice odio analfabeta verso il sapere, inteso come opposizione al dettato “animale” della pulsione.
Siamo posti di fronte a questo: l’aut aut fra ragione e pulsione. La guerra tra il logos e il mito. Ove il primo agisce razionalmente sull’universale indifferente e “ottuso”, tentando di renderlo intelleggibile e quindi fruibile: mentre il secondo retrocede da tale ratio per affondare in un eroico e leggendario epos dei sensi, radici tuttavia illusorie, concepite dalla medesima intelligentsia che si ripudia. Così, l’assenza di civiltà diviene eroica e “trasvaluta” nel delirio. Cioè nella pulsione violenta, sanguinaria, visionaria, che è supina ai propri desideri e, vergognandosene, almeno inconsciamente, li trasfigura in mitologia barbara, in super-eroi ingenui e crudeli come i ragazzini. E questo è un comportamento archetipico, una foggiatura, una configurazione del pensiero mitico, pre-razionale, un primevo sedimento dell’intelligenza che è ancora limbica e infarcita di simbolismi e superstizione. Qualcosa che è atto dovuto alla prima “crosta” del discernere, ma non a chi lo eredita. Chi già dispone di un patrimonio mnestico-razionale non dovrebbe permettersi tale disastrosa retromarcia. Ma, è già noto, la memoria dura fatica a consolidarsi, a perseverare. Cioè, a convertirsi in civiltà. 
All’oggi, non intravediamo che ombre annerirsi sopra l’orizzonte. Siamo in retromarcia e la bancarotta del discernimento sembra tonificare il mercato delle tenebre, ove s’affaccia mezza umanità, onde accaparrarsele e accreditandogli in modo plateale la propria preferenza in luogo d’alcuna luce. Nessuno più ”immagina” come faceva John Lennon. Nell’immaginario collettivo si infiggono le teste squarciate dai Naz-isis e issate a monito sui pali, o i “vascelli” sgangherati dei disgraziati che da quelli scappano, i quali, invece di muovere a compassione, fanno riscattare indietro la molla del carme barbaro, alitando dentro la cattiva coscienza del sedicente mondo civile il medesimo livore ancestrale di quel fanatismo imbestiato, considerato “aggratis” contraltare e antitesi alla propria illusa, spocchiosa civilizzazione. E sui mondi contrapposti sventola soltanto la vicendevole bandiera del razzismo.
Per riallacciarci quindi alle premesse, resta da osservare questo: quell’incantesimo che gravava allora sul passato prossimo, non era un appannaggio esclusivo di un irritornabile accaduto. L’evento e il suo orrore non appartenevano soltanto agli incubi ignoti sospesi su quella “preistoria” di prima della mia nascita.  E questo retrocedere verso pulsioni primordiali, scambiate per valori, non era un gesto immanente di una germanicità ancestrale; la riemersione di un “destino tedesco” ineluttabile. Ma, come accennavamo, un costume antropologico strutturale, un comportamento reiterativo e nevrotico del sapiens messo alle strette da una qualche fatale necessità. Così, la coscienza va a pescare dalle proprie radici pulsionali un principio di valore che è l’esatto contrario di ciò di cui è coscienza, appendendosi essa stessa ad un sostrato mitologico da cui proprio come coscienza dovrebbe emergere, e non immergersi a cercare tentoni schegge di identità da cui far discendere l’onore e il valore. In altre parole, la fondazione mitica dell’essere dentro al linguaggio conforma il grande inconscio delle unità socio-antropologiche delle società. Da questa linfa traggono alimento l’identità dei popoli e le loro specificità. La coscienza appare quando un soggetto prende coscienza di questo stato di cose. Ossia, quando da un sostrato mitico, ovvero dall’inconscio, si lascia affiorare un processo di interpretazione e di razionalizzazione degli elementi mitici. Ecco, il fascismo è il processo inverso. È suggere significato dal mito, che è per sua natura inspiegabile. È rovesciare il processo per il quale l’interpretazione del  mito diviene spiegazione e assumerlo invece come senso. Con il che esso diventa valore invece che conoscenza. Come se noi discendenti dai Romani dicessimo che Giove e Marte erano meglio di Allah e che, di conseguenza, noi latini saremmo superiori agli arabi.
Ogni regressione ai presunti valori fondativi di qualsivoglia unità sociale o tribale, è in tal modo una “eversione fascista”, perché l’acme di tali valori si consolida nel mito e questo non è “vero”, è soltanto l’inconscio collettivo di quel tale assetto sociale, di quella tale tribù. Basterebbe, all’uopo di gettar luce su questa dinamica, andare a scandagliare il fondo di questi “valori” per vedere che si tratta di bubbole, di leggende più o meno inverosimili, appiccicate con lo sputo sui vessilli dell’onor patrio. Per fare un esempio neutrale che più neutrale non si può, i miti fondativi della Confederazione Elvetica sono principalmente due: Guglielmo Tell e lo storico giuramento sul Rütli. Guglielmo Tell non è mai esistito, benché potete andare a visitare il suo sito originario sul lago di Lucerna. Il giuramento dei contadini sulle alture del Rütli, del 1291, c’è stato davvero: un patto di mutua difesa dei contadini contro le angherie dell’Impero, come ce ne furono forse a centinaia nel basso medioevo (si veda alla più tarda guerra dei contadini, capeggiati dal leggendario Thomas Münzer). Questa ebbe la ventura di riuscire nel proprio intento, dando così origine a una specie di stato montanaro dei contadini. È perciò che la pubblicistica locale, da secoli, ne retoricizza l’importanza (e sia detto ciò nonostante l’ammirazione e la simpatia che comunque quegli antichi contadini meritano).
Quando si sente dire “torniamo ai nostri valori originari”, attizziamo le orecchie: qualcuno sta per commettere dei “crimini contro l’umanità”…   

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