Scritto da © Hjeronimus - Sab, 23/03/2019 - 15:27
Ero su una delle Cicladi, non ricordo quale. Sedevo su uno scoglio e andavo indietro col pensiero a tutto un vivere anteriore, sprofondato oramai nella ricordanza come alghe antiche in un mare rimosso, arcaico, leggendario. Non era il mare davanti, quello. No, era un mare ipotetico che sbatteva onde di ascesi contro spiagge malinconiche e polvere di mitologia. Il passato trascendeva e trapassava nel mito, tuttavia in una sorta di febbre tragica che impregnava di gioia e dolore insieme ogni scintillante reminiscenza riemersa dal buio di un tempo scaduto, già, mai più avverabile. Ora era vero soltanto la mia solitudine incolmabile, il mio pensare scontento spinto dalle correnti come un gabbiano funesto, planante su flutti e su lutti. Ero lassù la sibilla della sventura incombente che cade ora sul mondo, dal che nessuno, e meno ancora il mio comprendonio, potrà emendarci. Niente poteva sollevarmi da questa amara cognizione di causa. Sapevo in modo cosmico che tutto, mare e terra, cielo e mondo, tutto andava velocemente in malora. Che nessuno sarebbe stato salvato e nessuno salvava …
Tra i fragori d’un’onda e l’altra, massacrantesi contro le rocce ottuse e dolenti, udii farsi strada un dolce flauto, sussurrante cautamente in quella guerra d’acque. Un suono sottile, quasi introverso che insinuava castamente il suo innocente filamento sonoro fra le urla atroci dei marosi. Sporsi meglio l’orecchio, tentando cioè di concentrarlo su quell’esilissimo, flautato sospiro e il prodigio divenne visibile, corporale. C’era un leone marino, no, un delfino, no, una fanciulla dal delicato splendore che “luccicava” seduta su uno scoglio affiorante, le mani composte su uno strano ventre argenteo, a metà tra un prezioso vestimento e una bizzarra decorazione.
Lei cantava, ma senza parole, un’arcana nenia di sole “a” e “u”, allungate tra tonalità minori e diminuite di vaghi armonici, ora piangenti e ora enigmatici. E mi sembrarono oracoli ciechi, sopraggiunti colà a rivelarmi cognizioni altre, impreviste dal mio miscredente discernimento. Ella gettava fra le onde il suo lamento come una specie di richiamo. Un appello che, dacché non trovava alcuna eco dall’altra parte, si faceva ogni istante più accorato, prossimo alla disperazione. Non so dire se io c’entrassi qualcosa, né se magari si fosse neanche accorta di me che la osservavo. O se addirittura non me la fossi inventata io, una specie di allucinazione per alleviare a mia volta la mia angoscia. So che quando chiamava, con quel suo filiforme sussurro, mi infondeva una specie di calma insolita che mi restituiva un certo coraggio, una fiducia risorta nel mondo e nella voglia di restarci, di averci ancora alcunché da fare e dire, là dentro. Poi, invece, il canto volgeva in lamento, non ricevendo risposta da quel fragoroso, fluido Nettuno. E risospingendomi nell’amarezza solo poc’anzi e alla stessa maniera mitigata. Così, con un afflato lei mi diceva che no, il mondo non era quella cloaca disperata in cui stavamo affondando tra violenze, vendette e “pulizie etnico-religiose” d’ogni sorta; e subito appresso, con un altro che invece sì, così era.
Non so che fosse. Ma ebbi l’impressione di una vera profezia, giunta sul mondo con una promessa di salvezza, subito altresì rinnegata.
Tra i fragori d’un’onda e l’altra, massacrantesi contro le rocce ottuse e dolenti, udii farsi strada un dolce flauto, sussurrante cautamente in quella guerra d’acque. Un suono sottile, quasi introverso che insinuava castamente il suo innocente filamento sonoro fra le urla atroci dei marosi. Sporsi meglio l’orecchio, tentando cioè di concentrarlo su quell’esilissimo, flautato sospiro e il prodigio divenne visibile, corporale. C’era un leone marino, no, un delfino, no, una fanciulla dal delicato splendore che “luccicava” seduta su uno scoglio affiorante, le mani composte su uno strano ventre argenteo, a metà tra un prezioso vestimento e una bizzarra decorazione.
Lei cantava, ma senza parole, un’arcana nenia di sole “a” e “u”, allungate tra tonalità minori e diminuite di vaghi armonici, ora piangenti e ora enigmatici. E mi sembrarono oracoli ciechi, sopraggiunti colà a rivelarmi cognizioni altre, impreviste dal mio miscredente discernimento. Ella gettava fra le onde il suo lamento come una specie di richiamo. Un appello che, dacché non trovava alcuna eco dall’altra parte, si faceva ogni istante più accorato, prossimo alla disperazione. Non so dire se io c’entrassi qualcosa, né se magari si fosse neanche accorta di me che la osservavo. O se addirittura non me la fossi inventata io, una specie di allucinazione per alleviare a mia volta la mia angoscia. So che quando chiamava, con quel suo filiforme sussurro, mi infondeva una specie di calma insolita che mi restituiva un certo coraggio, una fiducia risorta nel mondo e nella voglia di restarci, di averci ancora alcunché da fare e dire, là dentro. Poi, invece, il canto volgeva in lamento, non ricevendo risposta da quel fragoroso, fluido Nettuno. E risospingendomi nell’amarezza solo poc’anzi e alla stessa maniera mitigata. Così, con un afflato lei mi diceva che no, il mondo non era quella cloaca disperata in cui stavamo affondando tra violenze, vendette e “pulizie etnico-religiose” d’ogni sorta; e subito appresso, con un altro che invece sì, così era.
Non so che fosse. Ma ebbi l’impressione di una vera profezia, giunta sul mondo con una promessa di salvezza, subito altresì rinnegata.
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