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Hamlet

Essere niente, essere nulla. È questa la spada di Damocle sospesa su di noi, inutile sottovalutarla o fare finta di niente. Il non-essere, vano occultarlo, è il martello stillicida dell’essere… un congegno a orologeria, una concrezione del tempo che prima o poi collasserà. Noi abbiamo visto l’universo e abbiamo detto: ecco, l’universo è il Tutto, non c’è un’altra “cosa”: ogni cosa sta dentro questa, che è totale, che è il tutto appunto. Anche noi, cosa fra cose per la quale ne va di se stessa. Poi, disperatamente, abbiamo voluto altri destini che quelli assegnatici, e così abbiamo coniato un’equazione: se la “cosalità” del nostro essere fa parte di un Tutto cui comunque ritornerà, allora magari anche il nostro sentimento può essere un “dividendo”, una partecipazione di un Tutto sentimentale, affettivo e quindi trascendentale… sì, come no, c’è Dio dietro quando mi scoppia il cuore d’amore e di passione… anche a immaginarselo, questo “vapore” che è il sentimento, quest’arietta, questo soffio lieve spirato dalla coscienza dentro l’autocoscienza, col suo dileguante fuoco fatuo, quanto durerebbe, quanto sarebbe?… Che ridicolo, che trascurabile sottomultiplo d’essere corrisponderebbe a questa minuscola aliquota d’essere?… E come ricondurre al mio soffio in declino l’Essere globale e infinito che lo ingoierebbe?. Anche visto così, non siamo niente, neanche se siamo qualcosa.
Ma ci vuole molta speranza e molta immaginazione a vederla in tal maniera. È più verosimile, più consono alla nostra realtà, se pur questa sia alcunché, tagliare fuori, ricusare anche questa bagattella di speranza e affrontare rettamente, e magari con un filo di dignità migliore, ciò che concretamente, ossia razionalmente, assomiglia più da presso alla verità. Alla verità miserabile, irrimediabile, imperdonabile in base al cui verdetto, come scrisse Leopardi, morremo, e basta…
Ci resta il premio di consolazione, ci resta l’”io” sul cui fondamento sono comunque io che asserisco il niente che m’incombe sopra. Non lui, non il niente, il quale è un Satana senza il concetto, che non pensa nulla. L’”io” dentro al quale sta l’universo, e non mai viceversa. 
È notte. Ti ci avventuri, fai due passi. Il vento ha spazzato via i resti dei naufragi addietro e della loro scia di fango e di morte, specie nell’amata Liguria. Così s’è aperta come una finestra lucente sulla volta dell’abisso. E tu te lo guardi, lo ammiri avvolto nel suo ridente mantello d’astri. È sereno, infinito, immortale, come scrisse il poeta. È bellissimo, è sterminato. Non lo è. Il cielo, l’infinito, non- è; magari sta, sussiste, magari in un altrove parallelo e magari strettamente concatenato ai nostri gangli e le nostre ossa. Ma non è. L’essere che esiste non è dentro l’universo che lo accoglie, viceversa è quest’ultimo ad aver bisogno di un soggetto, un testimone, o un interpretante (come lo definisco io) per accedere all’essere. Sono io la porta della percezione attraverso cui quel tutto universale passa nell’essere: soltanto allora l’universo è, non prima. Ma è, anche lei, ben misera cosa questa infinitudine, e anche lei si estinguerà, prima o poi, insieme al nostro ricordo, sempre più labile, sempre più tremante...
 
 

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