Quando mi trasferii nella mia nuova casa, in un paese così piccolo, dove non potevi fare uno starnuto senza che tutti lì intorno lo venissero a sapere, beh a quell’ epoca ero una ragazzina insulsa, impacciata, timida e magra come un chiodo ed anche l’unica ragazza di tutto quell’odioso microscopico paese fatto di vecchi che non avevano un nome proprio ma dei nomignoli come:Momigrando, Momipicio, Magnapatate, Mesapipina, Barconselo, Batoceta, Batirame, Bonanova, Spalavier, Nassavecia,Negavescovi, Sivoleta ect. ect.
La mamma ed io fummo costrette a lasciare la città che tanto amavo dopo la morte di papà causata da un incidente sul lavoro ed a trasferirci nella casa dei nonni che ora apparteneva alla mamma e l’unica che potevamo permetterci visto quel poco di sussidio che l’assicurazione ci passava.
Appena la vidi misi il broncio e cominciai a piangere. Era così piccola in confronto al bell’appartamento lasciato in città, e per giunta pure isolata. Come avrei fatto a sopravvivere in quello squallore proprio non immaginavo.
Per giorni cercammo di sistemarla e renderla più accogliente. Dipingere le tre stanze fu uno spasso ma il risultato non fu dei migliori. Io di notte piangevo ripensando alla scuola ed alle amiche, laggiù in città.
Fu una mattina, una delle tante del mio solito gironzolare per i prati ed i sentieri di campagna, che incontrai la donna che divenne per me quasi una nonna. La sua casa era a pochi passi dalla mia e quando ebbi occasione di entrarci scoprii che aveva un’unica stanza divisa a metà da un soppalco, di sopra c’era il suo letto e sotto la cucina, con un’unica lunga finestra che illuminava tutte e due le parti di quella buffa casa, il bagno naturalmente in cortile, ma era talmente linda, ordinata e perché no profumata di erbe che la donna raccoglieva e colma di cose interessanti che ne rimasi subito affascinata.
Mi disse di chiamarla Gnagna Meneghina e da allora diventammo grandi amiche, anche perché era la sola con cui potessi parlare quando la mamma andava a lavorare, faceva le pulizie nella tenuta di signori molto ricchi distante qualche chilometro da noi.
Gnagna Meneghina, che tutte le comari bigotte segnavano a dito e le giravano la schiena mostrandole il culo quando passava, e lei apostrofava comebasabanche perché erano sempre in chiesa a intinger le mani nell’acqua santa, la chiamavano puttana perché amava passare ore in osteria, il suo più grande divertimento, a bere, a cantare con la sua voce stridula e a giocare a carte con gli uomini, mentre le altre donne morivano d’invidia. A lei non interessava, alzava le spalle e tirava dritto per la sua strada senza mancar però con un gran sorriso sdentato di salutarle.
Meneghina ovvero Domenica era una donna straordinaria, la più sincera ed onesta di tutto il paese. Quello che ora so lo devo a lei. La sua età non l’ho mai saputa, pareva così vecchia eppure così fresca. In gioventù doveva essere stata bellissima, il suo viso se pur grinzoso, scavato da rughe profonde aveva un bel colorito roseo, incorniciato da capelli lunghi e bianchissimi, lisci ed ordinati, tirati su sulla nuca da uncocon, come diceva lei. I suoi abiti erano dimessi ma sempre ben puliti, profumavano di sapone Marsiglia che poi era anche il profumo della sua pelle. Conobbe il marito in tempo di guerra quando lei era partigiana, si sposarono di nascosto, ebbero un figlio che ora vive in America e che se la passa molto bene. Rimase vedova molto giovane e per sopravvivere e mantenere il figlio fece mille mestieri, anche pericolosi come quello di cercare le bombe inesplose aprirle e svuotarle dalla polvere per venderla ai cacciatori che si costruivano le cartucce da soli. Oppure distillare, in un capanno nascosto nel bosco, ogni sorta di liquore dalle sue erbe che i beoni del circondario apprezzavano tanto.
Gnagna Meneghina mi ha insegnato a fare tutto, cucinare, stirare, tenere in ordine la casa, distinguere le erbe medicinali da quelle cattive e quelle invece buone da cuocere e mangiare, e perché no mi ha insegnato anche a studiare, il cielo in particolare, perché diceva che se non conosci il cielo non sai quando devi raccogliere ogni specifica erba per poi conservarla. Aveva un piccolo difetto, se così si può chiamarlo, tirava su con il naso emettendo un fischietto, e io, ogni volta, dovevo girarmi dall’altra parte per non riderle in faccia.
Mi sono sempre chiesta e glielo ho chiesto, come facesse a vivere se non aveva un briciolo di pensione, lei, sorridendo mi rispose: <<Oh ma mi no son poveretta, no gho bisogno della pension par viver, varda…>> e da un cassetto segreto della sua credenza tirò fuori un sacchettino rigonfio di una polvere dorata che sparse sul tavolo.
<<Ma è oro!>> gridai <<Si, si, ma sitto nessun devi saver, solo mi e ti…capito?>> E poi mi raccontò come aveva fatto a trovarlo. Una mattina dopo aver tanto girovagato in un bosco che esplorava per la prima volta, in una piccola radura decise di riposarsi, però il suo riposo era disturbato da un continuo gorgoglio, si guardò attorno ma non c’erano ruscelli lì, allora curiosa si avvicinò a quel rilassante rumore e proprio in mezzo alla radura trovò dell’acqua freschissima che usciva da una buca circondata da morbidissimo muschio, era una risorgiva. L’acqua brillava in modo strano ai raggi del sole che bucavano i rami degli alberi, scrutando tra i ciottoli e la sabbia qualcosa attirò la sua attenzione. Immerse le mani e raccolse una pagliuzza di quello che un po’ alla volta diventò il suo tesoro ed anche il mio, quando mi ci portò e a quel tesoro attingevamo solo all’occorrenza, perché la risorgiva non sempre sputava quella ricchezza ed anche perché non bisogna essere troppo avidi disseMeneghina.
Mentre gli anni passavano io ero sempre in compagnia di quella donna. Un po’ vuoi per le lunghe passeggiate all’aria aperta, un po’ vuoi per le pozioni magiche della mia amica, il mio corpo rifiorì in un battibaleno riempiendosi nei punti giusti, diventai più alta, i capelli che una volta erano sempre scarmigliati ora mi scendevano ricci sulle spalle. Quando mi lamentavo che nessuno si sarebbe mai accorto di me (anche perché nel paese e nel circondario non c’erano ragazzi e quelli che incontravo a scuola erano troppo piccoli), la donna si arrabbiava e facendomi gli occhiacci mi sgridava:
<<Ma te te gha vardà in speccio? No, allora ciapa qua e varda, varda quanto te son carina e no sta dubitar picia, ti vedarà che riverà anca per ti el principe zuro.>> e io le rispondevo << E come no.>> << Te lo digho mi e quel che digho sucedi. Te vedarà, te vedarà se no gho ragion, e po’ digho sempre la verità.>>
<< Ma che sei una strega forse?>> << Squasi picia, squasi…>>
Quando era stufa di parlare delle sue avventure mi raccontava del nipote Marc e diceva che era un bel ragazzo, intelligente che viveva in America e lì possedeva un ristorante molto importante dove andavano a mangiare le persone più in vista e famose degli Stati Uniti. Io facevo si, si con la testa ma dubitavo che quel nipote esistesse fino a che un giorno tra un nuvolo di polvere una grossa auto si fermò davanti alla casa della mia vicina e ne scese un giovane dalle gambe chilometriche che bussò insistentemente alla porta diMeneghina senza nessuna risposta, evidentemente era uscita per i suoi soliti giri, dimenticandosi che quel giovane sarebbe andato a farle visita o forse chissà...Dopo qualche secondo sentii bussare alla mia porta, davanti all’uscio c’era il giovanotto, bello davvero, forse un po’ troppo alto per i miei gusti.
<<Tu devi essere Anna l’amica di mia nonna.>> Disse nel suo italiano stiracchiato mentre io lo guardavo a bocca aperta.
E questo è tutto, anzi no devo ringraziare la mia cara amica se Marc ed io ora siamo sposati e siamo felici qui in America è merito suo. GrazieMeneghina per tutto quello che hai fatto per me non ti dimenticherò mai ovunque tu sia forse su quella stella che brilla la su. Grazie.
nota: il brano si è classificato al primo posto nel Premio Internazionale di poesia Accademia Città di Udine. I migliori complimenti alla nostra Eddy, persona di grande valore umano e punto di riferimento importante nella redazione di Rosso Venexiano. Manuela Verbasi
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