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su Pino Daniele (I got the blues accussì)

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                                               I got the blues accussì
 
1981: c’è fermento nell’aria a settembre: una sera, dicono, vaporosa, calda, presaga. Piazza del plebiscito è ancora un immenso parcheggio l’anno dopo il terremoto mentre la Neapolitan Power dilaga, in quell’immensa piazza, liberando duecentomila anime per un concerto storico che nessuno dimenticherà più. Chi l’ha visto quel concerto s’è portato appresso un vanto come una dote in più nel carattere, una specie di stemma del proprio sentire, perché lì s’era alzata una voce che veniva dalla terra appena scossa, una corrente per riprendersi al volo, al centro del proprio essere nel mondo. Già, perché Pino Daniele metteva Napoli all’incrocio dei venti: succhiava, contaminava, scuoteva all’improvviso i suoni più belli e duraturi facendoli prillare come acciarini in una pioggia di voci interiori, di corpi tenuti stretti in un accordo del tempo, dedali sanguinanti a pulsare su tutte le vie della città, aprendola, leccandola, lasciandosi inghiottire.
Rock, blues, jazz e melodie tradizionali si fondevano nel bacile vulcanico del suo talento poetico: tiravano le corde a una voce stretta e profondissima che teneva la storia sulla lingua pronta per essere sputata; e la gente lo capiva; non solo i duecentomila di piazza del plebiscito, ma tutti gli artisti che un po’ alla volta gli si accostarono. Quel nuovo linguaggio, Tarumbò, portava tutti nell’imbuto di un amore sinistro, in piedi, nell’abbraccio di un unico applauso musicale, linguistico, pregno di vita e di arte.
Per tutti gli anni sessanta e settanta osservando e rimuginando, covando, come si dice, dalle mani e dagli occhi, una rabbia autentica e sublime, quella dei vent’anni (passati al centro storico tra piazza del Gesù e santa Maria la Nova nelle taverne a sentire, a decantare, suonando, sempre, prima di tutto in gruppi aperti ai nuovi sound come la Batracomiomachia e Napoli Centrale di Senese): feroce lirica del rifiuto, esistenziale, civile, che gli fece vomitare da lì in avanti i suoi migliori album, da Terra mia a Nero a metà, a Musicante; poi, un crescendo di creatività nella stimolo d’una trasformazione culturale che investiva totalmente la città nelle sue forme artistiche, Musica, Pittura, Teatro. Coltivando e raccogliendo, sempre, in un flusso ininterrotto di stimoli multilingue, nel solco d’un amore puro e primordiale con la terra che non gli morirà mai dentro, anche quando se ne allontanerà.
Ora che piazza del plebiscito si è riempita per il saluto finale sembrano quasi surreali le note di Napule è per come attraversano la notte. Ma resterà per sempre quel suono e quella voce in falsetto che dice a metà di due lingue I got a blues accussì. E a noi non resta che morire dentro, un po’ alla volta e per sempre, dopo l’ennesimo caffè amaro, tuttavia paghi e pregni d’ un patrimonio d’emozioni che ci resta, per cui forse ogni riconoscenza non basterà davvero mai.
 
Giovanni Perri 

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