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Recensione a "Tematiche" di Antonio Ciavolino

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Orientarsi, nel mare magnum delle produzioni poetiche contemporanee (digitali e cartacee), non è un’impresa semplice.
Tanto più vale, dunque, aver trovato nel pagliaio l'ago; giacché è da pochi giorni nelle librerie con “Tematiche” (suite in cinque movimenti circa le donne, gli uomini, eros, thanatos, gli endecasillabi) per i tipi della "Divinafollia" nella collana "Trasversalia", l’ultima raccolta poetica di Antonio Ciavolino, autore già ampiamente apprezzato non solo da me e decisamente noto ai frequentatori non occasionali dei siti web di poesia.
“Tematiche” si presenta, programmaticamente direi, e col supporto di un sottotitolo e di una copertina ampiamente dichiaratori, nella peculiare organizzazione tempistica delle partiture musicali dove accadono temi e movimenti attraverso cui, quasi nell'abbandono, si è tirati nel gorgo della riflessione; che è riflessione, in senso ampiamente etimologico, delle più alte sfere del vivere, in cui si giocano i destini, le mete e i percorsi tutti di ogni umana avventura: e si riesce vivi, quando travolti, tramortiti o beati ovvero avvolti, appagati, nel riflesso d'gni minimo umore. Ma i temi, intrecciati ontologicamente al filo doppio dell'inquietudine (notata sapientemente nell'ntroduzione al volume da Silvia Denti) agli entusiasmi e ai patimenti, agli appetiti e ad ogni minima gioia pronta a far posto all'incupirsi d'ogni muta rassegnazione, ruotano mimicamente attorno al cerchio della passione. Che è passione integra del cuore che cuce e trema, e ferisce e lenisce. E accetta la sorte come legge quasi suprema, dono del demiurgo ascoso. E Spinge. Irrora, anima, oblitera, si fa persino beffe, prima di piegarsi incantata.
Con "Tematiche" Ciavolino ci introduce nel suo metro cardiaco. Nel corpo onirico d'un suono ondulato, dolce ma anche tenacemente vivido, fermo, pago. La grazia, quella svagata gioia serina che gli occhi cantano cercando, svola nel buio ferino della carne appena un senso la chiama; diventa dono di terra e di sangue, lacrima primordiale che feconda. Sembra quasi nominata la danza che accorda in un unico segno, in un unico sogno, donne e uomini, eros e morte, quali motivi divinati all'unisono. Perfettamente tramati nell'occhio indovino, nell'evanescenza, nella trascendenza, appunto, nella sorte, che è madre megera e "bottana"; nominata e appena lasciata andare, come una fede matura, nel giogo misterioso del nascere e morire: come se fosse musica, appunto, portata dai venti del cuore. E soffiano e soffrono, questi venti, le contingenze opportune degli incroci, nei laidi sollazzi, nelle livide colate lunari a cui l'animo consegna il fianco, di velluto e vetro.
Un verso denso, calmo e ritmato, sintatticamente polito e greve, in punta di diamante, ristretto nel vocabolo còlto e idillico, eppure fresco, pratico, lima di dardo alato. Con tutto il bagaglio della più alta tradizione continuamente innovando, sveltendo, limando. Lirica accorta e meditativa, nel melodiare l'ora ch'avanza arrestandosi e quindi catturandoci, tra l'occhio e l'orecchio, nel segno vivo della sillaba, messa lì a decantare come un vino.
 
Giovanni Perri

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