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Levanto

Non chiedetemi com’è Levanto. Quando ci ritorno, troppo raramente per averne un ‘idea allineata con il tempo che scorre, mi prende una specie di strabismo mentale. I miei occhi vedono la Levanto di adesso, ma la mente ha incisa, indelebile, quella della mia infanzia.
Ogni pietra, ogni angolo, il profilo dei monti che fanno da sipario all’ammasso di palazzi del fondovalle, i ciottoli delle sue spiagge, tutto si porta dentro un ricordo, un’immagine di quei tempi. Non riesco proprio a vederla com’è.
  
Levanto è la porta delle Cinque Terre. Sontuoso proscenio di uno dei posti più belli della Terra. Delle Cinque Terre non ha l’impatto scenografico che taglia il respiro, né quel tuffo all’indietro nel tempo preservato da un isolamento secolare, bucato solo dai binari del treno, unico mezzo di trasporto per chi non voglia affrontare gli incerti di un viaggio per mare. Proprio il suo essere più aperta al mondo, più spaziosa e con maggiori possibilità di alloggio la rende preziosa per chi è pronto a muoversi per scoprire un territorio denso di bellezze e di storia.
  
Il mare è la sua fondamentale ricchezza. Mare aspro, che sprofonda immediatamente in abissi inimmaginabili e perciò vivo, capace di affascinare chi vi si immerge. Mare che sa mostrare la sua forza possente con le mareggiate che battono per giorni la costa di sabbia e di scoglio. Agognate dal popolo delle tavole, che ha eletto questo borgo ad una delle capitali dei cavalcatori di onde.
  
Surf, diving, trekking, parole straniere per la Levanto di oggi, come a segnarne un carattere cosmopolita, un posto sulla buccia del pianeta dove si intersecano i percorsi delle persone di ogni provenienza. Parole che sanno di movimento, di gioventù, che porterebbero a dire che questo NON E’ UN POSTO PER PIGRI.
Eppure la Levanto incisa nella memoria non coincide con questa e non solo perché mi fa affiorare sprazzi di ricordi, brandelli di immagini sbiadite da anni ’60, con un giovanotto eccentrico, nostro vicino di casa, che girava su un vecchio Maggiolino interamente coperto di scritte con la vernice bianca. Il suo nome allora non lo conoscevo e anche se l’avessi saputo non mi avrebbe detto niente. Ero troppo piccolo per sapere chi era Gino Paoli e solo molti anni più tardi avrei ricollegato alle mie estati di allora i versi di una canzone:
 
… e il tempo è dei giorni
che scorrono pigri …
 
Non è solo questo a darmi la vertigine dello strabismo. E’ anche, forse, la lontananza più che decennale, che mi fa pensare con distacco al carattere scontroso della gente di qui. Alla loro innata incapacità di guardare ad un orizzonte più ampio, che li potrebbe sollevare dalla meschinità dell’interesse immediato. Alle chiacchiere interminabili sulla roba, su chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Alle possibilità che si sono perse, a quelle che ancora si perdono e si perderanno.
  
No, non chiedetemi di dire com’è Levanto. Io non ne sono capace. 
 

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