Scritto da © gianbarly - Mar, 21/08/2018 - 17:50
(si comincia dalla fine - 1935)
All’interno della vettura di prima classe il viaggiatore solitario si muoveva appena, sussultando in perfetta sincronia con le scosse del vagone. Per il resto il suo corpo era immobile; non sembrava interessato al paesaggio, né si dedicava a quelle azioni banali che, di solito, si fanno per mitigare la lunghezza del viaggio. C’è chi legge, chi osserva gli altri passeggeri, chi si studia con un interesse esagerato le dita della mano. Lui no; sembrava assopito, ignaro di ciò che lo circondava.
Niente di più falso. Era, come sempre, perfettamente desto e con tutti i sensi allertati. Nulla di quello che succedeva intorno gli sfuggiva, neppure i particolari più insignificanti. Una porta che si apriva in fondo al vagone, l’andirivieni del personale, anche un cambio di inclinazione dei binari per una curva. Una caratteristica naturale, allenata da una pratica costante, gli permetteva di assumere quel particolare atteggiamento. Si ritirava all’interno di un’apparente indolenza che gli consentiva di passare inosservato. A nessuno sarebbe venuto in mente di andare a sedersi proprio accanto a lui, con la speranza di poter scambiare quattro chiacchere. Era proprio quello che voleva.
Come un felino, sembrava risvegliarsi solo quando doveva passare all’azione: analizzava con velocità incredibile la situazione, valutando le singole circostanze e il riflesso che ogni azione poteva avere sugli attori e anche sui comprimari dell’azione. La sua mente eccezionale passava al setaccio le possibilità che gli si presentavano, mettendo in fila tutte le varianti del caso. Aveva una capacità prodigiosa di considerare, fino nel minimo dettaglio e senza escludere nessuna evenienza, tutti gli elementi che potevano influire sull’operazione. Prendeva quindi la sua decisione, elaborava un piano, ne mandava a memoria i dettagli e poi non ci pensava più. Entrava allora in uno stato quasi di letargo, apparentemente distaccato da ciò che gli succedeva intorno. Questa capacità gli permetteva di essere tranquillo, di non pensare al lavoro che lo aspettava, anche quando doveva svolgere un compito particolarmente difficile e pericoloso.
Aveva però imparato, nei lunghi anni di pratica, che il non pensarci poteva essere altrettanto pericoloso del pensarci troppo. All’agitazione poteva sostituirsi la distrazione. La mente, libera dell’incombenza di ragionare sul da farsi, avrebbe potuto facilmente trovare sfogo in altri pensieri. Da uno spunto qualsiasi sarebbero nate riflessioni e domande che avrebbero potuto assorbire in modo subdolo la sua attenzione. Non poteva permetterselo. Ogni distrazione poteva portare, a lui e – soprattutto – a chi stava sopra di lui, una serie infinita di guai. Il suo modo di agire era rigoroso, senza spazio per l’improvvisazione o per la casualità. Doveva essere sempre lucido e pronto ad affrontare ogni tipo di imprevisto. I pensieri estranei non erano tollerati nel momento dell’azione. Aveva perciò elaborato un suo metodo per tenere a freno la testa.
Gli veniva incontro, in questo, la sua naturale attitudine per la musica. Il suo essere razionale, scandito dalle precise regole della logica, ben si sposava con l’esattezza della costruzione musicale. Spazi e tempi ben cadenzati, regole precise per tenere insieme la concatenazione degli accordi gli riuscivano facilmente comprensibili. Aveva un buon orecchio ed era in grado di comprendere la struttura intima della melodia che ascoltava. Sapeva apprezzare le differenti interpretazioni che i musicisti davano a uno stesso pezzo musicale. E sapeva ricostruire a memoria interi brani nella maniera propria in cui li aveva sentiti eseguire da questo o quell’artista. Fra tutti apprezzava sommamente il maestro Toscanini.
Quando, come in quegli istanti, doveva restare concentrato sul proprio obiettivo, riusciva a tenere occupato il suo cervello facendogli ripassare nota per nota un brano del grande direttore d’orchestra. La musica fluiva dentro di lui, scandendo il tempo dell’attesa e, nello stesso tempo, regalando alla mente un’attività cui dedicarsi. In tal maniera era sicuro di poter portare a termine il suo compito senza distrazioni, nella maniera impeccabile cui aveva abituato i suoi superiori.
A volte pensava di avere una certa comunanza con i musicisti e, in particolare, con Toscanini. Anche loro avevano l’obbligo di eseguire un compito che sembra non lasciare spazio a iniziative personali. Uno spartito rigoroso, preciso, unico, da seguire senza lasciarsi andare a improvvisazioni. Eppure, gli artisti come il maestro Toscanini riuscivano a lavorare in quello spazio minimo che veniva loro concesso. Questione di dettagli, di timbri, di tempi che all’interno della cadenza definita dall’autore davano una sfumatura, un colore particolare, un’interpretazione. Così era per lui. Non era il tipo da mettersi in mostra con inutili vanterie. Neppure indugiava in considerazioni su se stesso, soprattutto se mirate a elogiare il suo operato. Però questo se lo concedeva: la capacità di eseguire gli ordini in un modo particolarmente efficace, che dava soddisfazione a chi gli stava sopra e, nello stesso tempo, metteva - per così dire - la sua firma all'azione. Lui sapeva benissimo che solo pochi, nella ristretta cerchia delle persone che erano con lui (o contro di lui) erano in grado di riconoscere il suo stile. Questo era un bene, perché troppa pubblicità avrebbe mandato in rovina il suo lavoro. Nello stesso tempo, chi doveva sapere era avvertito.
Da quando era partito da Roma non si era mosso che per il minimo indispensabile. Salendo sul treno aveva adocchiato con fare sicuro il posto migliore. Si era seduto e chiuso nel suo mondo impenetrabile. Solo ogni tanto alzava appena la testa, per accertarsi che il suo uomo fosse ancora lì. Sapeva che il resto del vagone era vuoto, come doveva essere. Conosceva numero e funzioni di tutto il personale in servizio su quella tratta e avrebbe potuto, in ogni momento, disegnare una mappa precisa di dove si trovasse ciascuno di loro. Non ci sarebbero state sorprese. Nella tasca interna della giacca un biglietto accuratamente piegato conteneva il testo del trafiletto che, l'indomani, un solerte cronista del Carlino avrebbe inserito nella pagina della cronaca.
Avevano appena superato la stazione di Vernio e il treno era stato inghiottito dalla montagna. Iniziava la lunga galleria dell’Appennino. Si sistemò con cura la giacca dando ancora una volta un’occhiata intorno. Poi si alzò. Era ora di muoversi.
»
- Blog di gianbarly
- 973 letture