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La festa che si svuota uno ad uno.

 
E giunse il tempo di seguire per la prima volta un morto, anche se non son certo corridori e vanno piano perché la vita li ha già sfiancati.
Fu una fatica immane attraversare il riconoscimento dei parenti: da quelli che lo erano dal tempo in cui non c’ero a quelli che avanzavano dalla conta del mio sangue.
 
Ero in una chiesa con altri morti sui piedistalli ed uno più sicuro al centro della navata, disteso e schivo come sotto un platano nell’erba assente di inattesi formicolii, con lo sguardo indeciso sulla strada del ritorno: quel declivio oscuro che porta dalla carne alla polvere e da questa al niente, o meglio, alla dimenticanza del futile gioire.
 
In quella cerimonia di commiato - occasionale intesa di una composta festa - tutti gli invitati sapevano della partenza solitaria, uno ad uno, di cui sarebbero stati migranti, al più tardi, dopo aver svuotato la credenza della vita e lasciato, nel cuore opportuno, i resti del bivacco nella radura dei sentimenti.
E mentre, tacendo, il sole esaltava dalle vetrate poche lacrime vere e quelle salate d’occasione per il mare minore del dolore in cui l’anima s’imbarca e fanno l’ultima estate nel cuore ridotto e fermo del defunto, quasi tutti parlavano del sereno assente, che intanto era presente solo non sentiva. Altri con coraggio si presero il resto della vita, pensando al proprio incomodo come sciacalli in giro nel pollaio.
 
Guardandoli, negli abiti falsatamente neri ma splendidi per quell’ inverno al cimitero, sentivo che dovevo contentarmi di avere pezze al culo ed una mano tesa al più vicino dei parenti ch'era mio padre già deciso a darci un quarto della sua miseria, spartita in coscienza coi miei fratelli (perché divisa la miseria non si nota).
 
Non durò molto la funzione e il prete non trovò spunti per allungare l’elogio funebre: era un morto qualsiasi di una qualsiasi morte in un giorno stranito che non apparteneva più al suo calendario. Poi, iniziò il corteo funebre: chi piangeva davanti perché sentisse lo scomparso amico - che invece era lì nella sua coltre al massimo abbandono, con la rigidità di pensiero del suo giorno peggiore - e chi veniva dietro a parlare di come anche la morte si ripete e non ha grandi spunti di originalità.
 
A nessuno venne in mente che la morte è il conio esatto per chi fa moneta dell’eternità.
 
Mi chiedo ancora oggi se convenga avere una vita piatta solo per consentire di fare in fretta in quel momento là... Eh già, perché la morte sembra buona solo se non procura ritardi all’esistenza.

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