Scritto da © ferdigiordano - Gio, 24/11/2016 - 17:13
Tocco una delle vene da polso, sul dorso
della mano, e deduco che sì, il tempo
è inappellabile e glabro. Il cielo riflesso
dall’orologio non fa una grinza: il tempo
senza asperità è la pelle dello spazio. Credo
che non abbia angoli, sento che mi presta
aiuto e porta peso altrove. Ovunque
adagia la sua perizia, l’esperto vento, è leggero,
direi che, che, che: mettici qualsiasi cosa
e tornerà pelle inenarrabile, intuita dalla vena.
Da uno dei suoi pori viene il sudore di dio,
viene una di quelle gocce inappellabili e glabre,
prive di onde e, che lo voglia o meno, mi bagna.
Non c’è purezza nella fatica di asciugarne
la voce, piena di corpi e mondi, emaciati
come di annate magre, secchi come se l’inverno
fosse nell’universo l’unica stagione abitata
da stelle a gas, a occhio e croce azzeccate
sul portello di un frigorifero. Per questo
temo il ghiaccio e il suo futuro a vapore.
Ora veniamo al calendario:
inappellabile e glabro, ha il chiodo fisso
di non ricordare le date. Mi dico passaci sopra,
non conta, e tu non contare. Il tempo è liscio,
tu ruvido: quando lui inciampa, sei tu che cadi.
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