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Un turno di riposo

 
 
Il passato è un bozzolo dal quale mai si esce
e tu sei presente, nel sogno che non ti solleva
perché tutto è fatto per ancorarti a terra.
Quale natura mette le ali perché diventino arti?

 

Quando allungo il braccio vedo appena un palmo,
nocche a ripetizione, falangi improbabili
al servizio della dittatura delle strette.

 

Indichi agli assenti la luna piena di senni
che vorresti bere; ti senti rispondere che no,
così non riempie un bicchiere, benché cada
in ogni pozza e lì ancora meno disseta.

 

In verità, dissetarsi è misura del deserto
che produci. E se quaggiù asciuga il bacino,
la vita si allarga da dio; consente mirabilie,
se pure quel ruolo è solo campato in aria.

 

Con tanti buchi si può accomodare il vuoto,
così l’esistenza ci colma di estranei e toglie i familiari,
per la stessa ragione che bisogna abituarsi al foro
perché molto somiglia alla bocca che ti abbandona;
al limite, prendi il bacio come forma al volo.

 

Resta il cielo l’incudine più resistente, su cui batte
quel maniscalco dell’astro nascente. Si presenta
a ritroso per lo strano fenomeno che produce
il suo cavallo riposando: il traino di tenebre
lascia cadere ovunque l’orizzonte.

 

E non si annodano le radici come dovuto; e le chiome,
i capelli, anche ali e pensieri, curiosamente sfilano,
e si sciolgono, nel pettine, per non serbare rancore.
 
 
 

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