Perchè io ho visto un uccello senza nome
seminare di nidi le pagine vuote. Deposte
le uova, covava il bene indiscusso dei voli.
In tal modo, covava, è tipico non della mole,
quanto del foglio, cioè la casa delle parole,
avrei detto il nido, ma mi sarei ripetuto.
Dichiaro che ho visto l’uccello (e qui pesanti
battute dal fondo), l’uccello senza nome
posarsi sul rigo dopo il rimbalzo nelle gole,
come lanciato il sasso a piattello sulle onde.
L’avrai fatto millemila volte dalla riva
intessuta nel golfo ocra, nella posa infantile,
come un punto cardinale preciso, e ricovero.
Eri certo più alto dell’orizzonte, benché
l’orizzonte arrivi agli occhi come una mensola
vuota – e occorre una fatica tremenda per
disporre su di esso tutti i ninnoli che hai raccolto.
Proprio l’uccello senza nome sistema il nesso
tra visione e liberato dalla voce. Le cianfrusaglie
saggio del corpo, materiale per il volto.
E si è posato; e depone gli etimi nel senso
che è noto solo a lui, violato se fosse diffuso.
Nel mio mondo,
l’uccello senza nome è una parola sola, covata
da altre parole, volubili o nascoste, che d’improvviso
mi giocano perchè affondano e non rimbalzano
nelle gole o perchè un sasso è un sasso mentre
la parola si scioglie. Ma se davvero un essere
non dotato di ali si posa in questa forma,
nessuno, credimi, può negare che un poeta
sconosciuto, o futuro, annidi nelle pagine vuote.
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