Riporto qui l’iniziale, l’avvento di questa
figura sfilacciata dalla nebbia, trapelata;
lungimirante, certo, quando fu necessario
imprimerla come il timbro; e non solo
per questo continuo a trovarla sanguigna
emme. Sollievo come due colli sul ventre
in una notte ruvida, vetrosa, di contenimento.
Emme priva di indirizzo ma che risiede
o in un papavero o più in alto verso il frumento.
Emme che non parla ma dice, iniziando da altro,
proseguito in questi segni, ogiva del suo spirito,
aumentato dagli affanni, esaudito nel gesto
godibile della fonte ripresa dall’acqua.
Emme temeraria con il coraggio dei porti
naturali, delle baie più grandi dei mari
che accolgono carghi sconosciuti e piedi
privati di orme o, comunque, di questo lato.
Emme traghetto con la stiva tra le anche.
Emme congiunta al legno, emme di miele.
Emme contagiosa per il trasecolare diffuso,
quindi eterno, incessante, seno universale.
Emme sorniona come stella, come tratto
del raggio, ossia luce che chiede spazio
e annienta le setticemie oscure del cosmo.
Emme convessa che scorgeva da lontano figli,
da lontano chiama figlio ciò che si perde,
da vicino sussurra l’umore nel palmo
fiorito dalla terra nel punto in cui ha battuto.
Emme che sopporta l’eco del lamento
e lo lenisce con una sola emme prolungata.
Emme attraversata dal mio corpo, complice
l’alfabeto che le toglieva la parola primitiva;
emme che mi hai lasciato più dritto del rigo,
più preciso dei quadretti, spillato da quaderno.
Emme con le scapole non alate ma di piuma,
emme volatile come ogni finito terrestre
che ritengo a mente porziuncola del sempre.
Emme votiva, statua di cellule contuse
dai ceri sfiammati eppure ancora in cute.
Emme di Matilde, come di Madre:
come Meraviglia, persino in Morte.
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