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E venne il tempo affacciato

 
Questo è un punto di vista (pensate ad uno
skywalk di parole sospeso sul colorado
intercostale tra vene convenienti). Badate all’accento.
Lì i miei piedi hanno radici. State attenti! Da qui indico
la sua più lontana partenza e il recente arrivo.
Che io sia stato allo stesso tempo il frutto e il suo tronco
è dovuto al capriccio di un seme. Che sia stata
la statale 163 a congiungere il necessario, non è una favola.
Così si usava, così fu fatto. Ebbe la lingua dall’amigdala
e mi diede pareri che esplodono oggi come bengala
(chissà se mai si è pensata fuochista o se davvero chi
non ha più futuro prevede il futuro dal suo passato)
ma sparì dalla vista quando era nell’angolo.
Era più alta del caso che l’aveva portata.
Soprattutto, il caso le aveva segnato la rotta
per quella vicenda di vele lontane che appaiono
all’improvviso sull’acqua come coriandoli stagnati
a prescindere dal vento che tira.
Nel soggiorno, lasciò una sedia non ancora rimossa.
Lasciò lo scialle consunto alla lana, alla flanella
il panneggio del corpo: le pieghe ormai inesistenti
conservano forme e scompigli resistendo agli occhi.
Una campata davvero lunga tra due coste anagrafiche.
Al centro, nel punto in cui mezzo mondo tira il fiato,
era la donna. Non era ancora mia madre,
ma già il giugno fecondo le suonava nel ventre.
Un marinaio, parallelo più vecchio della storia, venne in lei.
Convocò dal litorale delle braccia l’incontro di quattro seni.
Insinuò tra loro una narrazione di approdi avventurosi.
La turbò con la tenacia di Santiago per la spina del merlin.
Si legò con la sua fune ad una gonna di tela, che era
nient’affatto la vela nè coriandolo, che prese
a gonfiarsi dal primo abbraccio, che navigò

dalla vita a salire, quasi ignara che dentro,
per le ondate di sensi vitali,
nuotavano i suoi delfini da terra.
 
 

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