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C’è tanto da sapere del basilisco

 
È così che avviene: svuota un lago
con un cucchiaio e conoscerai
quanto manca al mare. Questo
è l’udito, l’altopiano dei timpani. Diceva
anche altro, ma per la verità mi sentivo
un po’ strano. Era per tutti quegli alberi, era
perchè la notte cura il bosco con le sue mani.
Poiché mi piaceva ascoltarlo, gli domandai:
 
                        – E per la vetta?
Ora si solleva, vedrai, sui passi.
Con le ali spiegate il suo prato volerebbe;
di atterrare, invece, ne sa abbastanza.
Uno stelo emerge dal fango, baldanzoso,
in un niente sfida il suolo, lo scavalca.
Vede la cima, crede al sentiero fino a là.
Il suo piede non raggiunge il passo, pure,
fa presa sul fango, lo lascia al tappeto.
 
                        – E dimmi del casolare.
Oh! Un gioco di assi. Venuta su
dal basso, è diventata capace, tanto che
due occhi non bastano a ricordarmela.
Ha un’unica stanza, così ampia che il vento
spira sui mobili, sui ninnoli minerali,
sulle astuzie rampicanti; e sacche d’aria sono
il vero sudario per una volta soltanto:
questo il cielo, più arredato del bar.
 
                        – Perchè stai sul ramo?
Chi parla da terra trama l’alto: è lo stelo,
è il sentiero. Usano il verde vocale come
gradoni, salgono nell’aria, risiedono a sbafo
dove si invocano i nomi da salmodiare.
Ma tutto ciò che viene raccontato
può essere abitato da altro: adeguato
l’orecchio, le parole si fanno da parte.
Tra le sconfitte, forse, o reperti analoghi.
 

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