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Aquile

 
La domanda è un censimento:
– Quante aquile vivono nel tuo torace? –
Guarda le vette. Tratta i bianchi
come cirri. Sui Lattari, limoneti loquaci
non ne parlano, il giallo macchia lo sfondo.
L’indagine parte da tracce scomparse,
l’aria è imputata di almeno una cancellata.
  
Qui,
la mortella è diplomatica,
i nidi sono ambasciatori senza rappresentanza,
il console è un sentiero piano – piano piano:
dorme, come a mezza costa
o per l’intero specchio sottostante
l’immenso scoglio.
 
Non ho mai visto la regina degli alianti.
 
Nè si può dire io lo sia. Avevo lo sguardo
basso. I poveri vivono sul fondo, tesi in lunghezza
aspirano al volume, la nascita è una meta fortunata.
                        Sono di asfalti.
Questo riconoscimento anagrafico non si evita,
è prescritto, è festivo; sono un ponte,
un uomo seduto sulla spalla nuda,
sull’asfalto, sull’asfalto c’è un paccheggio vuoto,
sa di petrolio grezzo nelle brecce del golfo
dove l’epoca produce rapaci galleggianti.
Vanno per l’onda fedeli, così le sciano:
è un capo d’accusa.
                        Il quesito resta indecifrabile.
L’interrogazione dei limoni è aspra, il succo
ridotto sapere. E minerali volatili nella bocca
saliva lo sconcerto: si perdono risme di sillabe
tra domande vuote e risposte inutili.
Le aquile abbandonano le nuche alle collane.
Tra le tempie tipicamente quattro piume
di corda, ricordo.

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