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Annibale

 
 
Nell’assedio alle vette, ordinasti: “Date fuoco alle rocce!”
E così, vedi, lasci un’orma che nessuno aveva in mente,
prima che l’aceto dissolvesse la pietra in uno stretto sentiero
e io, e i tuoi piedi, con altri cento, millemila piedi,
toglievamo la pace alla neve per lo stretto necessario.
 
Nell’anno in cui il bavaglio di Roma era una corazza,
la guerra imponeva alle statue l’epica dei fori imperiali:
tutte guarite dalla ferocia del potere, tutti promossi alla gloria.
Torna adesso a toccarle e saprai che le ferite,
ad esempio, non sono nella fisicità del marmo
ma qualche piaga sembra aver raggiunto il Campidoglio.
La guerra, che scolpisce la terra non più a zolle
ma con uomini chiusi ai lamenti, aperti come vuole il metallo,
è sintomo dell’astuzia del ferro: pietra magnetica,
poi liquido suadente, infine tempera d’inferno
che oggi va solo per le rotaie dei treni.
Anche per questo il valico di qualsiasi elemento
è una faccenda seria già alla partenza.
 
Non dovrei parlarti con tanta sfrontatezza, non sei presente
benchè mi accompagni negli spostamenti. In generale,
il segreto che il mio sguardo cattura si perde nella voce.
Il segreto nell’occhio resta integerrimo, il suono cambia
il racconto se ciò che lo emette sono le corde dei vincitori.
Dimmi di te: sei ancora a Capua? Ti ricordo che sono Campano,
in appena due ore vengo, per il solito: “Sei vivo abbastanza?”
Ovvio che tu non possa risponderrmi adesso: questa è la guerra
e il nemico fa proseliti ovunque e, nei bar, anche le tazze hanno orecchie.
Che gli potrò mai dire per passare indenne il confine?
Tutto ciò che sfugge alle dune è fondo per l’oceano.
Difficile resti libero a lungo: si conforma ai luoghi per occuparli
di accampamenti. È un’astuzia che tu insegni e ancora dura.
 
Per secoli sei cresciuto con un guerriero alla porta, quindi
l’armatura è il tuo vestito più visto. Ti copre di gloria
quando incontri la Storia, ma impedisce ogni altro appuntamento.
Lo scontro ci domina per la faccenda dei territori
ha un tempo impreciso nella misura dell’arco del sole.
Sobilla ciò che lo contiene – il sole non ruota, dicevamo,
ma senza telescopio non potevo convincerti – così puntavi
la spada allo zenit e fissavi l’ora nella polvere.
Poi, come in una piscina, ci tuffavamo nello scontro.
 
Più in là, nel primo giardino che mi viene in mente,
c’è un acero che ti è gemello. Strategico e solitario
guida frotte di uccelli con la stessa tattica del rifugio
perché l’aquila colpisce ovunque. Tra nuguli di foglie,
e le gole dei rami, la potenza non serve, l’agilità dei passeri
rende più grandi. Proprio un passero mi vola incontro.
Se tu fossi l’acero lui tornerebbe indietro. Se tornasse indietro
non sarebbe lo stesso volo. Se tu tornassi dal passato
non sceglieresti questa lontananza. Verresti da così vicino
che il giorno iniziale, o la notte, renderebbe la conquista
più educata, più cordiale. Ma avresti ancora bisogno
di alleati, ed io sono qua.
 
Nell’inutile “aspetto dall’Africa
le sue zanne possenti e i galoppi più audaci delle oasi”
c’è l’orgoglio dell’orbo in terra di ciechi. Per la breve intimità
degli accampamenti, la vista non serve, l’udito soccorre.
Si parla si parla si parla, per rendere la notte inesistente.
Oscure penitenze poggiano il dorso alla tenda. È il timore
di lasciare le spalle scoperte all’attacco delle stelle,
prefiche dolorose e tremende. E vorresti vederne il seno,
ancora prima di essere eterno, ma pure stringendo l’occhio
non afferri il senso: chi cattura una luce la tiene per sempre.
 
 
 

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