Scritto da © Fausto Raso - Mar, 30/04/2013 - 11:54
Qualcosa e qualche cosa
Alcuni vocabolari classificano ‘qualcosa’ di genere femminile, altri di genere maschile, altri ancora di ambo i generi. Vediamo un po’ di fare chiarezza. Intanto è un pronome indefinito ed è la forma contratta di ‘qual(che) cosa’ e per il suo valore indeterminato è considerato di genere neutro, quindi maschile: qualcosa è stato fatto; qualcosa non è andato per il verso giusto. In grafia univerbata, come forma contratta di qualche cosa, è preferibile, dunque, consideralo sempre di genere maschile. Sarà tassativamente femminile, invece, in grafia scissa (cosa, infatti, è di genere femminile): qualche cosa è stata fatta, qualche cosa non è andata per il verso giusto. In una parola sola gli alterati, che sono di genere femminile: qualcosina; qualcosetta; qualcoserella; qualcosellina; qualcosuccia.
* * *
Il modificante
Nessun “sacro testo” in nostro possesso specifica che l’avverbio è chiamato anche “modificante” perché modifica, per l’appunto, il significato di un verbo, di un nome, di un aggettivo o di un altro avverbio. L’avverbio, dunque, prende il nome dal latino “adverbum”, composto con “ad” (accanto, presso) e con “verbum” (parola) e costituisce una delle nove parti del discorso. Non specificano inoltre - sempre i “sacri testi” in nostro possesso - che i modificanti (gli avverbi) si sogliono dividere in tre categorie: semplici, composti, derivati.
Sono semplici quei modificanti che non derivando da altre parole hanno forma autonoma: già; mai, bene; oggi, domani; ieri; forse; poco ecc. Sono chiamati composti quelli che in origine costituivano delle locuzioni avverbiali formate da due o piú termini, poi fusi in un’unica parola (la cosí detta univerbazione): inoltre (in oltre); infatti (in fatti); indietro (in dietro); talvolta (tal volta) ecc. Si chiamano derivati, infine, i modificanti o avverbi che traggono origine da un termine mediante l’aggiunta di un suffisso, come “-mente” o “-oni (-one)”: sereno/serenamente; bello/bellamente; onesto/onestamente; balzello/balzelloni; ginocchio/ginocchioni ecc.
Accanto agli avverbi veri e propri ci sono le locuzioni avverbiali , che hanno il medesimo significato e la medesima funzione grammaticale dei modificanti. Sono frasi fatte costituite da gruppi di termini in sequenza fissa. Vediamone qualcuna: a poco a poco; or ora; a stento, d’ora in poi; all’improvviso; di frequente; per caso; di bene in meglio ecc.
* * *
Parole in libertà...
Breve viaggio – senza una meta prestabilita – attraverso il vocabolario della lingua italiana alla ricerca di parole di uso comune, quelle che adoperiamo quotidianamente, “per pratica”, il cui significato nascosto non è sempre chiaro a tutti. Prendiamo delle parole che ci vengono alla mente, cosí, senza una “logica predeterminata”.
Cominciamo dalla nostalgia. Avreste mai immaginato che quel desiderio intenso per qualcosa che si è lasciato temporaneamente o per sempre, la nostalgia, appunto, è un “dolore tutto nostro”? Se analizziamo il termine dal punto di vista etimologico scopriamo che il vocabolo è composto con le voci greche “nòstos” (ritorno) e “algia” (sofferenza, dolore). La nostalgia, letteralmente dunque, è un forte dolore provocato dalla sofferenza (‘algia’) data dal desiderio del ritorno (‘nòstos’) ai propri luoghi o ai propri cari. Quando la parola nacque era adoperata esclusivamente nel linguaggio medico; solo verso la fine dell’Ottocento cominciò a essere impiegata nel parlare di tutti i giorni nel significato attenuato di “rimpianto”: ho nostalgia del mio paese, vale a dire rimpiango il mio paese e soffro dal desiderio di tornarvi.
E a proposito di medicina e di medico (altra parola di “tutti i giorni”), se apriamo un qualsivoglia vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: colui che cura le malattie che non richiedono intervento chirurgico. La nostra sete di sapere, però, non è soddisfatta in quanto il dizionario non ci ha svelato il significato “nascosto” del termine. Insomma, chi è questo medico? È il latino “medicu(m)”, tratto dal verbo “mederi” (riflettere), quindi “curare” (dopo aver riflettuto). Il medico, insomma, “riflette” per poter curare. La persona, invece, che non riflette o, peggio, che non ragiona, nel linguaggio comune viene definita “folle”. Anche questo termine viene dal latino “folle(m)” (cuscino gonfio d’aria). Di qui, in senso figurato, il vocabolo è passato a indicare una “testa piena d’aria”, quindi “vuota” e chi ha la testa vuota non è in grado di connettere, di ragionare è, quindi, un… folle.
Lasciamo i “pazzi” e occupiamoci di due termini militari: caporale e sergente. Per questi ci affidiamo alle sapienti note di Aldo Gabrielli, insigne linguista.
“…Non occorre essere esperti di lingua per sentire subito, cosí ad orecchio, che ‘caporale’ risale alla parola ‘capo’ (…) e può quindi vantare una stretta cuginanza con ‘capitano’. In origine, anzi, il capitano era soggetto al caporale, appellativo generico di chi esercitava un comando (…). Caporali del popolo erano a Firenze quei cittadini che il popolo eleggeva ogni anno a tutela dei propri diritti contro l’aristocrazia; e infatti lo storico del Trecento Giovanni Villani, nella sua ‘Cronaca’ ci parla ‘delli maggiori e piú possenti caporali dell’annata’; e ci fa anche sapere che i caporali comandavano su quarantamila sergenti’. Davvero una gerarchia in evoluzione. Del resto non dimentichiamo che Napoleone si fregiò del titolo di ‘caporale’ di Francia. E non soltanto Napoleone. Il ‘sergente’ invece ebbe (…) un’origine piuttosto oscura. Il nome, infatti, è una semplice variante di ‘servente’, participio presente del verbo ‘servire’, influenzato dall’antico francese ‘sergent’, cioè ‘colui che serve’, un servo”.
Alcuni vocabolari classificano ‘qualcosa’ di genere femminile, altri di genere maschile, altri ancora di ambo i generi. Vediamo un po’ di fare chiarezza. Intanto è un pronome indefinito ed è la forma contratta di ‘qual(che) cosa’ e per il suo valore indeterminato è considerato di genere neutro, quindi maschile: qualcosa è stato fatto; qualcosa non è andato per il verso giusto. In grafia univerbata, come forma contratta di qualche cosa, è preferibile, dunque, consideralo sempre di genere maschile. Sarà tassativamente femminile, invece, in grafia scissa (cosa, infatti, è di genere femminile): qualche cosa è stata fatta, qualche cosa non è andata per il verso giusto. In una parola sola gli alterati, che sono di genere femminile: qualcosina; qualcosetta; qualcoserella; qualcosellina; qualcosuccia.
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Il modificante
Nessun “sacro testo” in nostro possesso specifica che l’avverbio è chiamato anche “modificante” perché modifica, per l’appunto, il significato di un verbo, di un nome, di un aggettivo o di un altro avverbio. L’avverbio, dunque, prende il nome dal latino “adverbum”, composto con “ad” (accanto, presso) e con “verbum” (parola) e costituisce una delle nove parti del discorso. Non specificano inoltre - sempre i “sacri testi” in nostro possesso - che i modificanti (gli avverbi) si sogliono dividere in tre categorie: semplici, composti, derivati.
Sono semplici quei modificanti che non derivando da altre parole hanno forma autonoma: già; mai, bene; oggi, domani; ieri; forse; poco ecc. Sono chiamati composti quelli che in origine costituivano delle locuzioni avverbiali formate da due o piú termini, poi fusi in un’unica parola (la cosí detta univerbazione): inoltre (in oltre); infatti (in fatti); indietro (in dietro); talvolta (tal volta) ecc. Si chiamano derivati, infine, i modificanti o avverbi che traggono origine da un termine mediante l’aggiunta di un suffisso, come “-mente” o “-oni (-one)”: sereno/serenamente; bello/bellamente; onesto/onestamente; balzello/balzelloni; ginocchio/ginocchioni ecc.
Accanto agli avverbi veri e propri ci sono le locuzioni avverbiali , che hanno il medesimo significato e la medesima funzione grammaticale dei modificanti. Sono frasi fatte costituite da gruppi di termini in sequenza fissa. Vediamone qualcuna: a poco a poco; or ora; a stento, d’ora in poi; all’improvviso; di frequente; per caso; di bene in meglio ecc.
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Parole in libertà...
Breve viaggio – senza una meta prestabilita – attraverso il vocabolario della lingua italiana alla ricerca di parole di uso comune, quelle che adoperiamo quotidianamente, “per pratica”, il cui significato nascosto non è sempre chiaro a tutti. Prendiamo delle parole che ci vengono alla mente, cosí, senza una “logica predeterminata”.
Cominciamo dalla nostalgia. Avreste mai immaginato che quel desiderio intenso per qualcosa che si è lasciato temporaneamente o per sempre, la nostalgia, appunto, è un “dolore tutto nostro”? Se analizziamo il termine dal punto di vista etimologico scopriamo che il vocabolo è composto con le voci greche “nòstos” (ritorno) e “algia” (sofferenza, dolore). La nostalgia, letteralmente dunque, è un forte dolore provocato dalla sofferenza (‘algia’) data dal desiderio del ritorno (‘nòstos’) ai propri luoghi o ai propri cari. Quando la parola nacque era adoperata esclusivamente nel linguaggio medico; solo verso la fine dell’Ottocento cominciò a essere impiegata nel parlare di tutti i giorni nel significato attenuato di “rimpianto”: ho nostalgia del mio paese, vale a dire rimpiango il mio paese e soffro dal desiderio di tornarvi.
E a proposito di medicina e di medico (altra parola di “tutti i giorni”), se apriamo un qualsivoglia vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: colui che cura le malattie che non richiedono intervento chirurgico. La nostra sete di sapere, però, non è soddisfatta in quanto il dizionario non ci ha svelato il significato “nascosto” del termine. Insomma, chi è questo medico? È il latino “medicu(m)”, tratto dal verbo “mederi” (riflettere), quindi “curare” (dopo aver riflettuto). Il medico, insomma, “riflette” per poter curare. La persona, invece, che non riflette o, peggio, che non ragiona, nel linguaggio comune viene definita “folle”. Anche questo termine viene dal latino “folle(m)” (cuscino gonfio d’aria). Di qui, in senso figurato, il vocabolo è passato a indicare una “testa piena d’aria”, quindi “vuota” e chi ha la testa vuota non è in grado di connettere, di ragionare è, quindi, un… folle.
Lasciamo i “pazzi” e occupiamoci di due termini militari: caporale e sergente. Per questi ci affidiamo alle sapienti note di Aldo Gabrielli, insigne linguista.
“…Non occorre essere esperti di lingua per sentire subito, cosí ad orecchio, che ‘caporale’ risale alla parola ‘capo’ (…) e può quindi vantare una stretta cuginanza con ‘capitano’. In origine, anzi, il capitano era soggetto al caporale, appellativo generico di chi esercitava un comando (…). Caporali del popolo erano a Firenze quei cittadini che il popolo eleggeva ogni anno a tutela dei propri diritti contro l’aristocrazia; e infatti lo storico del Trecento Giovanni Villani, nella sua ‘Cronaca’ ci parla ‘delli maggiori e piú possenti caporali dell’annata’; e ci fa anche sapere che i caporali comandavano su quarantamila sergenti’. Davvero una gerarchia in evoluzione. Del resto non dimentichiamo che Napoleone si fregiò del titolo di ‘caporale’ di Francia. E non soltanto Napoleone. Il ‘sergente’ invece ebbe (…) un’origine piuttosto oscura. Il nome, infatti, è una semplice variante di ‘servente’, participio presente del verbo ‘servire’, influenzato dall’antico francese ‘sergent’, cioè ‘colui che serve’, un servo”.
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