Scritto da © Fausto Raso - Lun, 01/10/2012 - 19:41
Ai tempi della scuola abbiamo appreso che la differenza tra il “concreto” e l’ “astratto” sta nel fatto che nel primo caso si dice di ciò che può essere verificato direttamente con i sensi, quindi è percettibile, “vero”, “che si può toccare con mano”; nel secondo caso, invece, di ciò che pur “esistendo” non può essere percettibile in quanto è semplicemente una nozione comune come, per esempio, la virtù o la benevolenza. Non è sempre facile, dunque, distinguere il concreto dall’astratto soprattutto sotto il profilo grammaticale perché “il fatto” non attiene né alla fonetica né alla morfologia né alla sintassi. Basti pensare a Dio che è concreto per i credenti e astratto per gli altri.
È interessante vedere, quindi – ripercorrendo l’ “evoluzione” della lingua – come alcuni vocaboli che in origine indicavano esclusivamente “nozioni materiali” oggi siano atti ad esprimere i concetti più astratti. Analizziamo il verbo “pensare”: questo non è altro che il verbo latino che voleva dire “pesare”; da una cosa concreta è passato ad indicare una cosa astratta; non diciamo, del resto, “pesare il pro e il contro” di una determinata faccenda? E che cosa significa “comprendere” se non “accogliere” in noi un pensiero? “Scrutando” il verbo capire (dal latino “capere”, prendere, contenere, accogliere) si vede bene il passaggio dal significato concreto a quello astratto: “accogliere” nella nostra mente un concetto, quindi… “capirlo”. Originariamente il suddetto verbo indicava solamente una cosa concreta, tant’è che ancora oggi si parla di “capienza” di un locale; poi anche in latino ha finito con l’acquisire l’accezione di “intendere”. L’ “ambivalenza” concreto-astratto si nota meglio esaminando un altro termine, figlio di capire: capace. Diciamo, infatti, che un recipiente è molto “capace” e che un ragazzo è “capace” di risolvere un problema; nel primo caso abbiamo capace nel significato concreto di “contenere”, nel secondo in quello astratto di “avere attitudini”. Ancora. Il verbo “riflettere” palesa ancora più facilmente la sua antica origine: non significa altro che… riflettere, vale a dire “piegarsi su sé stesso”. Chi riflette, dunque, “ripiega la mente su sé stesso”, ovverosia rivolge l’attenzione sui fatti interni della vita psichica (i contenuti del pensiero). Il passaggio dal valore concreto a quello astratto – anche in questo caso – si riscontra con maggiore evidenza nelle espressioni “concentrarsi nei propri pensieri”, “raccogliersi in meditazioni”.
Con queste modeste noterelle tentiamo di mettere in evidenza, insomma, il fatto che nel parlare e nello scrivere adoperiamo termini che i nostri antenati Latini usavano con accezioni diverse da quelle odierne e solo un’attenta analisi ci rimanda al significato originario che da astratto è diventato concreto e viceversa. Una riprova? Molte fra le parole più astratte di quelle che esprimono concetti matematici, ad un attento esame, rivelano i loro significati originari che erano, per l’appunto, concreti. Vediamo.
Il punto, quando è “nato”, non era altro che il segno lasciato da una… puntura (d’insetto, ad esempio); la linea, presa come simbolo della figura geometrica, è il femminile dell’aggettivo derivato da “lino” che è, propriamente, “un filo di lino”. Vogliamo dire, insomma, che il confine tra “astratto” e “concreto” è quanto mai labile (e i sacri testi grammaticali – per quanto ne sappiamo – non ne fanno cenno). Si pensi, a questo proposito, all’aggettivo “amaro”: un caffè amaro e un ricordo amaro; al verbo “inghiottire”: si può inghiottire un cibo come una calunnia. Potremmo continuare ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Concludiamo consigliando – a coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere – di adoperare il su citato verbo nella forma non incoativa (senza l’inserimento dell’infisso “-isc-” tra il tema e la desinenza) allorché assume un significato metaforico: non hai paura che il buio ti “inghiotta”? Si dirà, invece, che Mario “inghiottisce” qualunque cosa gli capiti sotto i denti.
È interessante vedere, quindi – ripercorrendo l’ “evoluzione” della lingua – come alcuni vocaboli che in origine indicavano esclusivamente “nozioni materiali” oggi siano atti ad esprimere i concetti più astratti. Analizziamo il verbo “pensare”: questo non è altro che il verbo latino che voleva dire “pesare”; da una cosa concreta è passato ad indicare una cosa astratta; non diciamo, del resto, “pesare il pro e il contro” di una determinata faccenda? E che cosa significa “comprendere” se non “accogliere” in noi un pensiero? “Scrutando” il verbo capire (dal latino “capere”, prendere, contenere, accogliere) si vede bene il passaggio dal significato concreto a quello astratto: “accogliere” nella nostra mente un concetto, quindi… “capirlo”. Originariamente il suddetto verbo indicava solamente una cosa concreta, tant’è che ancora oggi si parla di “capienza” di un locale; poi anche in latino ha finito con l’acquisire l’accezione di “intendere”. L’ “ambivalenza” concreto-astratto si nota meglio esaminando un altro termine, figlio di capire: capace. Diciamo, infatti, che un recipiente è molto “capace” e che un ragazzo è “capace” di risolvere un problema; nel primo caso abbiamo capace nel significato concreto di “contenere”, nel secondo in quello astratto di “avere attitudini”. Ancora. Il verbo “riflettere” palesa ancora più facilmente la sua antica origine: non significa altro che… riflettere, vale a dire “piegarsi su sé stesso”. Chi riflette, dunque, “ripiega la mente su sé stesso”, ovverosia rivolge l’attenzione sui fatti interni della vita psichica (i contenuti del pensiero). Il passaggio dal valore concreto a quello astratto – anche in questo caso – si riscontra con maggiore evidenza nelle espressioni “concentrarsi nei propri pensieri”, “raccogliersi in meditazioni”.
Con queste modeste noterelle tentiamo di mettere in evidenza, insomma, il fatto che nel parlare e nello scrivere adoperiamo termini che i nostri antenati Latini usavano con accezioni diverse da quelle odierne e solo un’attenta analisi ci rimanda al significato originario che da astratto è diventato concreto e viceversa. Una riprova? Molte fra le parole più astratte di quelle che esprimono concetti matematici, ad un attento esame, rivelano i loro significati originari che erano, per l’appunto, concreti. Vediamo.
Il punto, quando è “nato”, non era altro che il segno lasciato da una… puntura (d’insetto, ad esempio); la linea, presa come simbolo della figura geometrica, è il femminile dell’aggettivo derivato da “lino” che è, propriamente, “un filo di lino”. Vogliamo dire, insomma, che il confine tra “astratto” e “concreto” è quanto mai labile (e i sacri testi grammaticali – per quanto ne sappiamo – non ne fanno cenno). Si pensi, a questo proposito, all’aggettivo “amaro”: un caffè amaro e un ricordo amaro; al verbo “inghiottire”: si può inghiottire un cibo come una calunnia. Potremmo continuare ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Concludiamo consigliando – a coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere – di adoperare il su citato verbo nella forma non incoativa (senza l’inserimento dell’infisso “-isc-” tra il tema e la desinenza) allorché assume un significato metaforico: non hai paura che il buio ti “inghiotta”? Si dirà, invece, che Mario “inghiottisce” qualunque cosa gli capiti sotto i denti.
Fausto Raso
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