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Gli accenti? C'è anche quello "logico"

 Quando – in lingua – si parla di accento si intende quello ‘tonico’ che è l’accento per eccellenza in quanto – come dice la stessa parola – dà il “tono” alla parola medesima. Ma – come probabilmente tutti non sanno – non è l’unico. Oltre all’accento tonico (che non si segna graficamente) ci sono quelli grafici (acuto, grave e circonflesso, quest’ultimo adoperato, per lo più, nelle lingue straniere) e quello… “logico” (anche se ‘misconosciuto’ e, quindi, non registrato dalle grammatiche e dai vocabolari). Come la modulazione della voce, “posandosi” su una sillaba della parola (accento tonico), dà maggior risalto e colorito a questa sillaba, così in un periodo la modulazione della voce si ‘posa’ in modo particolare e determinante su una sola parola fra le tante per darle maggiore evidenza, per “distinguerla”, insomma, da tutte le altre. Questo è, per l’appunto, l’accento logico; un accento che serve per indicare la connessione, il rapporto che le parole hanno tra loro nel contesto del periodo. Esso classifica, per così dire, i termini di una proposizione o frase secondo la maggiore o minore importanza delle idee che esprimono. Si potrebbe anche chiamare accento “oratorio” in quanto attraverso questo colui che parla a una folla esprime e ‘comunica’ i sentimenti che l’agitano. Inoltre – fatto di non secondaria importanza – in qualsivoglia frase, per corta e insignificante che sia, c’è un ritmo, una melodia. Molto più evidente in poesia, il ritmo non manca nemmeno nella prosa, quando questa è ben costruita. Quando leggiamo, infatti, ci occorrono necessariamente dei segni come punto di riferimento per la modulazione della voce: il punto fermo; il punto esclamativo; quello interrogativo e i puntini di sospensione sono i principali di tali segni. Vediamoli brevemente.
Il punto fermo, indicandoci la fine di un periodo, ci “dice” chiaramente che la nostra voce deve chiudere e concludere la ‘melodia’ della frase in cadenza; la nota finale sarà, quindi, più bassa delle altre. Gli altri segni, invece, ci “avvertono” del fatto che la frase non è conclusa e dobbiamo, per tanto, alzare la voce per “interrogare” o per “esclamare” ovvero per lasciare dopo quella nota più alta una pausa di sospensione. Il ritorno a intervalli stabiliti, più o meno regolari, degli accenti tonici dà, del resto, a tutta la proposizione (ma anche al periodo) un “ritmo” suo particolare.
A tutto ciò si aggiungano le pause indicate dalle virgole, dai due punti e dai punti e virgola i quali costituiscono moltissime “rotture” del ritmo; e ecco che il… ritmo ora sale, ora si prolunga, ora scende, ora si spezza poi riprende e via… Anche la prosa (come abbiamo accennato all’inizio) è melodia insomma, e ha bisogno di un accento… logico. Non sappiamo spiegarci, quindi, le ragioni per cui i “sacri testi” della lingua lo ignorino. Questo accento, dunque, esiste e tutti lo adoperiamo senza rendercene conto. Diamogli il posto che merita nei trattati di linguistica.
E a proposito di accento, non possiamo chiudere queste modestissime dissertazioni linguistiche senza rivolgere una piccola ma “grande” critica ai fabbricanti delle macchine per scrivere (e ora anche dei computer): sulla tastiera le vocali “i” e “u” hanno l’accento grave (ù, ì) invece di quello – è proprio il caso di dirlo – logico che deve essere acuto. Le vocali sopra citate – al contrario della “o” e della “e” che possono avere “suoni” diversi (chiusi o aperti) – hanno un unico suono che è quello chiuso, il loro accento “naturale” (e logico) deve essere, quindi, acuto. Costa molto cambiare le tastiere?

Fausto Raso

 

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