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"Aboliamo" i dialetti?

 
 
È ancora fortemente radicata la convinzione in alcune persone – siano esse ‘linguisti’, siano esse persone ‘comuni’ – che i vari dialetti sono una corruzione dell’idioma nazionale ed è necessario ogni sforzo per tentare di eliminarli sostituendoli con la lingua ‘ufficiale’, quella che si dovrebbe parlare dalle Alpi alla Sicilia, passando per la Sardegna, vale a dire la lingua italiana.
    È un’opinione, questa, “senza capo né coda” (a nostro modo di vedere) perché contraria a tutto ciò che sappiamo circa l’origine e la formazione storica dei vari vernacoli, o, meglio, dei dialetti italiani. Essi sono, inoltre, un nostro patrimonio culturale. Una riprova?
   Quando l’espansione dell’impero romano portò il latino nei vari Paesi assoggettati a Roma questa lingua fu appresa piú o meno bene da tutte le popolazioni; poi, nei secoli che seguirono alla caduta dell’Impero, si vennero sviluppando nei diversi luoghi varietà dialettali che non sarebbe azzardato definire “autoctone”, dovute soprattutto alle difficoltà di “comunicazioni” derivanti dallo sgretolamento dell’Impero. Queste  “isole linguistiche” relativamente simili tra loro nell’ambito di ciascuna  entità geografica costituiranno – in seguito – le nazioni neolatine, ma non tanto da essere mutuamente intelligibili.
   Nel nostro caso, per esempio, considerando le varie regioni  “staterelli autoctoni”, un veneto non capirebbe un siciliano e un calabrese non capirebbe un lombardo senza l’ausilio dell’italiano. Marchigiano e campano, pugliese ed emiliano, insomma tutti i dialetti che si potrebbero elencare perpetuano – sia pure in forme diverse – il latino parlato: nascono dalla  “deformazione” del latino, non della lingua italiana. Il nostro idioma, è risaputo, si potrebbe considerare una  “summa” dei vari dialetti dove quello fiorentino (ma anche romano) fa la parte del leone grazie ai tre grandi del Trecento: Dante, Boccaccio e Petrarca che hanno elevato il fiorentino illustre ai piú alti fastigi. Negli ultimi decenni del Quattrocento e nei primi del Cinquecento tutti cercano di conformarsi ai modelli letterari offerti dai Grandi: nasce – possiamo dire – la lingua  “nazionale”.
   Vediamo ora, per sommi capi, il contributo che i vari dialetti hanno dato alla lingua. C’è da dire, innanzi tutto, che nei dialetti dell’Italia meridionale e settentrionale il suffisso piú frequente per indicare i nomi di mestiere si presenta in  “-aro”: carbonaro, pifferaro, benzinaro; solo in Toscana si ha la forma in  “-aio” che ha finito con il prevalere nella lingua nazionale: macellaio, fornaio, pantofolaio, usuraio. Insomma tra i vari idiomi  “fratelli” che si parlavano in tutto lo Stivale una sorta di plebiscito ha dato la supremazia alla lingua toscana senza, però, rifiutare singoli contributi offerti dalle altre  “isole linguistiche”.
   La Sicilia ha dato alla lingua nazionale i  “cannoli” e la  “cassata”; l’Emilia il  “birichino” e l’ “aleatico” oltre al  “mezzadro” e  “mezzadria”, forme prevalenti sulle toscane  “mezzaiolo” e “mezzeria”. L’Urbe ha contribuito regalandoci parole affettuose o scherzose come  “pupo”, “racchio”, “sganassone”; sempre dalla Città eterna abbiamo “sbafare” (mangiare gratuitamente) e i gustosi  “maritozzi” (con panna) oltre ai supplí (al ‘telefono’, cosí chiamati perché la mozzarella filante richiama i fili del telefono). La Liguria, per la sua posizione geografica, ci ha dato termini marinari come  “scoglio”,  “darsena”, “boa”, “molo”, “carena” e  “trinchetto”; ligure è anche il nome di quel pesciolino, l’ “acciuga”, ottimo per insaporire la... pizza.
   Il Piemonte, oltre ai famosi  “grissini”, ha immesso nella lingua nazionale molti termini militari come la  “ramazza” e il verbo  “bocciare” nell’accezione di  “respingere”. Dai dialetti delle regioni alpine abbiamo il  “camoscio”, per via del commercio che si faceva della pelle di quell’animale e, abbastanza recentemente, parole legate all’alpinismo: “baita”, “croda”, “cengia”.La Lombardia, oltre al famoso panettone, ha immesso nella lingua termini dell’industria casearia: la “robiola”, il  “mascarpone”, l’ “erborinato”. Dall’ex capitale del regno delle Due Sicilie si è diffuso il verbo marinaresco  “ammainare”, propriamente  “inguainare” (sottinteso le vele), cosí pure la  “pizza” e la  “mozzarella”, le  “alici” e le  “vongole”, oltre alla... “iettatura”.
   Il Veneto, in particolare Venezia, ha dato alla lingua la  “gondola”, molti nomi di pesci, come il “branzino”, per esempio. Sempre da Venezia abbiamo il  “catasto” e la  “gazzetta” nel significato di  “giornale” perché, sembra, si pagasse una... gazzetta, moneta che si coniava nella città della laguna.
Abbiamo piluccato qua e là, a caso, fra i moltissimi vocaboli che avremmo potuto citare, per dimostrare quanto copiosi e quanto vari siano i contributi che le  “isole linguistiche” hanno dato alla lingua nazionale.
   Allorché vi sono locuzioni dialettali che coincidono con l’uso letterario e con quello toscano tutto consiglierebbe di mantenerle, anzi di raccomandarle. Perché, quindi, abolire i dialetti che fanno parte del nostro patrimonio culturale? Preoccupiamoci, invece, di insegnare l’idioma nazionale in modo non "disforme". Ai compilatori dei vocabolari raccomandiamo, inoltre, di non immettere sul "mercato della lingua" spazzatura raccattata in vari siti della rete. A buon intenditor, poche parole!
 
Fausto Raso

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