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La Fata

 

L’avevo vista, scorta, potuta osservare non visto, nella più visionaria, nuda, cruda, paludata, fantasiosa, fredda, limpida, ottimistica, irriconoscibile, immemorabile apparizione. Ma chi ?
Già, la Sorca!
Non sapevo allora, appena dodicenne, esattamente cosa fosse, né lo so oggi. 
Di una cosa sono sicuro, se posso essere sicuro di una cosa nella mia vita, che nemmeno lei, diventata prima senso, poi trasformatasi nel corso dell’esistenza in concetto, come tutte le Idee mi disvelerà il suo mistero quando i vostri e miei nipoti s’appresteranno a seppellirmi senza aver ricevuto alcun estremo conforto.
Era sera, ricordo; si, questo lo ricordo.
E mia madre aveva già spento il camino lasciandovi morire per lenta combustione sottocenere i ceppi di castagno accettati ed accatastati sotto un telo grigioverdastro dietro la casa da me e mio fratello, e mio nonno. Orsono due mesi prima.
Volava.
Ad un metro circa da terra, credo, sobbalzando nell’aria serale tersa di quel fine ottobre come se, per una qualche cifra arcana, qualche segreto insvelabile, volesse ricalcarne il dislivello.
Maurizio, il primogenito di tre anni più vecchio, io ero il secondogenito ed ultimo dei figli nella nostra famiglia, sorrise, ed il suo sorriso si riflesse nei vetri.
Sorrise come non l’avevo mai visto sorridere e mi afferrò per un braccio tirandomi indietro.
“Cos’è?” Gli chiesi.
“Una fata”. Sussurrò lui.
Nel campo dei peri davanti alla finestra intanto, laggiù verso il fosso che ne delimitava il confine, s’erano accese improvvisamente delle fiammelle di un bellissimo colore blu alla base, celeste all’apice della fiamma. Oggi direi, descrivendo quella scena, come se qualcuno avesse acceso in sequenza, a partire dal grande melo renetta dell’angolo a sinistra per finire con l’immenso olmo nell’angolo a destra, centocinquanta, ma che dico, di più, cucine di fuochi a gas.
La fata, interamente avvolta da uno scialle degli stessi colori di quei fuochi, spinta dallo spostamento causato dal calore dell’onda pirica si avvicinò sciabordando pericolosamente ai muri della casa, finì per alzarsi e piroettare avanti la finestra dietro cui noi eravamo appostati e quindi s'adagiò come una sonda lunare sul davanzale, occhieggiando dentro.
Il viso suo era giallo paglierino e la gola, ed una bocca sdentata, ardevano di tutti i rossi a venire.
“Madò, ma questa sarebbe una fata?” Ebbi il tempo di esclamare, che già mia madre, quella santa donna, con la mantellina di lana sulle spalle, ciabattando ci si era fatta alle spalle.
“Dai, vnì a magnè cl’è ora! E d’mateina, par tott i seint, a la messa”  ( Dai, venite a mangiare che è ora. E di mattina, per Tutti i Santi, alla messa)
La luce elettrica era ricomparsa d’incanto e il riscaldamento si faceva già sentire.
Mia madre era nuovamente scomparsa in cucina.
Il nonno sedeva a capotavola e con le dita forti e nodose stirava, come di solito, pensieroso, gli angoli della tovaglia bianca immacolata.
“Nonno, a me sembrava una zucca” Gli dissi e lui, per tutta risposta. “Secondo te le zucche volano? E’ una fata, una fata turchina con la bocca sdentata, le candele in gola”.
 
 
 
 
 
 
 
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