Scritto da © Franca Figliolini - Lun, 06/02/2012 - 13:03
(post segnalato dalla redazione)
Stravaccati sulle sedie pompose e scomode dell'ennesimo palazzo, aspettiamo l'esito dell'ennesima riunione. L'abbigliamento d'obbligo è: sguardo cinico da «ve l'avevo detto, io...», sorrisetto sardonico, battuta pronta. Poi, bisogna tenere a bada i nuovi, quelli che c'hanno il sacro fuoco dello scoop. «Ma secondo voi, faranno questo o quest'altro?» chiede il novellino di turno col suo taccuino intonso in mano. E subito c'è chi gli replica: «Ma che vuoi che fanno? Faranno n'altro tavolo...» Un tavolo, cioè uno di quei rituali cui partecipa qualche funzionario ministeriale, rappresentanti sindacali, amministratori locali, tutti riuniti a certificare l'impossibilità di salvare l'ennesima azienda ed a cercare di "accompagnare" i relativi dipendenti alla morte lavorativa.
Oggi però non mi va di partecipare al solito gioco di società che chiamiamo pomposamente lavoro. "Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare", disse Luigi Barzini (*), ripreso e citato da molti altri, a proposito o a sproposito.
Oggi, sono rimasta impressionata da quegli uomini e quelle donne venuti a Roma in pellegrinaggio, come una volta s'andava a San Pietro, per chiedere la grazia di non veder sparire la propria fabbrica. Quello che mi ha colpito è che sembrano temere non il vaporizzarsi del proprio posto di lavoro - anche quello certo, col carico di mutui, figli da mandare a scuola e quant'altro, ma non solo. Loro hanno soprattutto paura di perdere il proprio lavoro. Non so se si coglie la differenza.
Sono i lavoratori - quadri, ricercatori, impiegati, operai - di una piccola fabbrica artigianale hi-tech. Un cento - centocinquanta anime in tutto, capitati a Roma solo grazie all'intercessione dell'onorevole parlamentare locale, casualmente molto amico del capo di gabinetto del ministro competente. Altrimenti, neanche li avrebbero notati, nemmeno se avessero fatto, che so... l'occupazione della fabbrica, il blocco della strada provinciale o quant'altro. Dieci righe in cronaca locale e questo è quanto.
Invece stamattina sono arrivati nel caput mundi alle otto, dopo un lungo viaggio in pullman, e me li immagino mentre confabulano a bassa voce tra loro, nella penombra, pieni di speranze e paure. Incontrare un ministro non è cosa da tutti i giorni, figurarsi per loro che abitano ai confini dell'impero. Hanno scelto come portavoce Maria, ricercatrice senior, fronte ampia e sguardo limpido. Me la sono trovata di fronte quando sono arrivata nell'anticamera del ministro, alle dieci, insieme ai miei colleghi.
Ci ha spiegato che la loro non è una fabbrica decotta, anzi. Lavora in un settore di punta, ha una percentuale di investimento in ricerca e sviluppo altissima e produce manufatti di assoluta eccellenza, esportando in tutto il mondo. La loro professionalità, di tutti loro, è riconosciuta ovunque e sono le star di ogni fiera del settore. Secondo Maria, ciò si deve alla presenza di molti giovani altamente qualificati nelle rispettive competenze - «anche bravissimi operai specializzati, eh? non solo tra i quadri e i ricercatori», specifica - ed alla scelta del vecchio proprietario di investire moltissimo nella ricerca.
«Ma allora perché...» Non ci lascia finire e spiega, con voce pacata, che il proprietario della fabbrica è morto all'improvviso ed i suoi eredi, per non impegolarsi in una querelle sulla successione ed anche per pura e semplice insipienza, hanno deciso di venderla. Ad acquistarli è stata una loro diretta concorrente, di un paese europeo vicino.
Erano pronti a tutto, al trasferimento, al pendolarismo spinto, qualsiasi eventualità. Ma i nuovi proprietari volevano in effetti una cosa sola: che sparissero, per restare padroni incontrastati del settore. A pochi mesi dall'acquisizione, avevano annunciato la dismissione degli impianti italiani e la conseguente, seppur deplorevole, necessità di lasciare a casa i lavoratori, tranne forse un paio di ricercatori da trasferire alla casa madre. Ne siamo rammaricati, ma queste sono le nostre scelte aziendali. Punto.
Fin qui, una storia come tante. Ma quando domando: «E voi cosa chiedete al governo?», Maria non mi risponde «che negozi garanzie di assorbimento in altre società del gruppo» o «ammortizzatori sociali» o quant'altro, ma, guardandoci negli occhi ad uno ad uno: «Chiediamo che salvi la fabbrica. È una realtà di eccellenza, noi ne siamo orgogliosi. Vede...» aggiunge come se quasi si vergognasse di dire una cosa così futile «...noi amiamo il nostro lavoro.»
Quando le porte si aprono, dopo ben venti minuti circa di riunione col ministro, non c'è bisogno che parlino. Raccolgo qualche dichiarazione di intenti qua e là - «l'Europa...», «la congiuntura...», «la globalizzazione...»... - e torno in redazione con le spalle basse. «Allora, che hanno deciso?», mi fa il caporedattore. «E che vuoi che abbiano deciso? Faranno un tavolo...»
(*) Luigi Barzini Jr (Milano, 1908 - Roma, 1984), giornalista e opinionista, ha scritto per i principali giornali italiani (Corriere della sera, La Stampa, L'Europeo) ed è stato il fondatore de "Il Globo".
N.B.: il racconto, benché ahinoi basato sulla realtà, è per l'appunto, un racconto: un'opera di fantasia.
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