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Enciclopedie - (Racconto pubblicato, Milano 2004.)

Era un portone. Nero, nero di polvere, pieno di polvere nera, ove le onde manieriste della decorazione, fluttuanti tutt’intorno alla cornice enorme e screpolata, naufragavano nell’oscura miseria dell’abbandono in cui eran gettate e che pure smentivano col loro modo
sontuoso e monumentale. Seguivo con l’occhio la linea sinuosa ed incerta di quella trina di travertino oblungo e infinito, discendente nella tenebra sudicia della sua misteriosa reticenza, come se avesse pudore a mostrarsi in quella pece di grasso e atomi, e volesse perciò rincattucciarcisi dentro, nascondendosi dietro l’ingiuria che voleva nascondere.  
Oltrepassai quella soglia per essere introdotto in una specie di Rinascimento, remoto e involuto al mio occhio curioso, costretto in retromarcia sulla scala di secoli di chissà quando, per farmi una mezza idea di quello stile anacronistico. C’era odore di legna vecchia e umida nel piccolo vestibolo cui si accedeva. I muri erano neri e massicci e sfiorandoli appena si avvertiva sulla punta delle dita lo sgretolarsi dell’intonaco antidiluviano che li ricopriva. Non so da dove, una luce fioca permetteva all’occhio qualche chance, così che potevo distinguere brandelli di figure ricoperte di pallide cromature, dipinte sull’intonaco sbriciolantesi. Erano figure vetuste, cortesi, che compievano gesti garbati, in stridente contrasto col loro stato di conservazione. Avanzando un po’ alla cieca, m’imbattei con la mano in una carta, che sembrava appesa al muro. E abituandomi al buio, riconobbi un manifesto cinematografico che qualcuno, incautamente, aveva incollato sui resti degli affreschi. Guardai meglio: “Non aprite quella porta”. Un vecchio film horror americano senza significato. Eppure, una porta c’era davvero, oltre quell’”affissione vietata”, una porta scura, oscuramente incassata in una cornice profonda, dagli spigoli smangiati.
Allora volevo spingerla, per vedere se avrebbe ceduto alla lieve pressione del mio braccio, significando il suo stato di totale abbandono, o se invece no, il che avrebbe testimoniato a favore di un inquilino a tutta quella “tenebra”. Così che sporsi in avanti il braccio destro, titubando.
-Non entrerei lì, io!- Questa voce mi apparve alle spalle come suono, più che persona, un suono femminile ma rauco, che m’impressionò.
-Non si spaventi!- Ribatté costei –Sono solo la portiera. Non ci abita nessuno lì, sono anni. Rischia di cadergli qualcosa in testa a entrarci. -.
-Ma è… disabitata? – Trovai il coraggio di replicarle.
-Perché, cerca casa? E vuole quella topaia?- Rise forte, echeggiando negli androni vuoti e oscuri che davano dietro di lei sulla scala di marmo spaccato. – Guardi. Ho qui la chiave. – Disse e sparì dentro il muro. Dopo un attimo resuscitò, porgendomi un’enorme chiave antica, nera come tutto il resto.
-Io però non ci entrerei. E’ avvertito! – Asserì e poi disparve definitivamente.  
Così infilai la chiave pesantissima nel buco della serratura, trovandola al tasto, e girai. Fece resistenza, però si sentì il piccolo tonfo dei cardini che cedevano e il vano s’apri, non senza generare un cupo scricchiolio, simile ad un lamento.
Esitavo ancora sull’entrata, cercando di gettare un’occhiata all’interno da cui perveniva un sentore di stantio e un silenzio di tenebre e di polvere, come se col solo gesto di spinta la porta avesse introdotto, col suo cigolante guaire, un’ambascia grave sugli dèi del sonno che presiedevano le oscurità. Riconsiderai il titolo del film messo a guardia di tanto sfasciume. Ma poi, con noncuranza, superai quella soglia ed entrai. Scavalcando uno sgabello rovesciato, posi la mano sulla parete, dove scoprii un interruttore. Non me lo aspettavo, ma lo premetti e si accese una lampadina, al centro della stanza, appesa solinga soltanto al filo elettrico che l’alimentava. Così che potei prendere visione di dove ero capitato.
Per prima cosa mi apparve il tavolino, sotto la lampada, grigio di polvere e con su un bicchiere e una bottiglia. Il bicchiere recava tracce rosse sul fondo; la bottiglia portava ancora un residuo liquido, quasi in fondo, mentre sul vetro vedevo la crosta secca del restante contenuto, oramai prosciugato. Vicino c’era un libro di foggia antica di cui non si leggeva nulla per via dell’incolore del pulviscolo sulle sue pagine aperte. Alla parete un lavello, una cucina a legna anni ’50, una credenza a quattro zampe con la vetrina decorata a fiori, oltre la quale, nonostante la polvere, indovinai una fila di tazzine e qualche altra vecchia carabattola, commovente nella sua spoglia dignità. Accanto al lavello, c’erano un paio di bicchieri e ancora una tazza, tutto rigorosamente ricoperto di polvere, messi lì probabilmente a scolare, dopo la lavatura. Tutto era fermo ad una perduta ora X, in cui qualcuno avesse preso la straordinaria risoluzione di fermare per sempre gli orologi e impedire così al tempo i suoi scempi ordinari. Ecco, proprio questa sensazione mi assillò lì per lì, che ci fosse stata l’intenzione un giorno, laggiù, di sbarrare il passo alla storia, impedendole il libero accesso fra le misere vicende e gli obbrobri del genere umano. Sì, là era stato compiuto qualcosa come un nobile tentativo, una sorta di autodifesa dell’uomo dalle inevitabili colpe cui era esposto e di cui era manifestamente capace.
Non lo so perché mi venne fatto di pensare così, forse un’intuizione, o chissà che altro…
Ma continuiamo la nostra visita.
Oltre la cucina, c’è un lungo corridoio, scuro anche lui, ma che prende luce dai lampioni di fuori da una finestra piena di ragnatele. Capisco che questo gira intorno alla tromba delle scale. Vado in fondo, inciampando sullo scalino centrale. Laggiù, come tre bocche infernali, si spalancano tre accessi. Vado dentro il primo. Con una specie di riflesso condizionato cerco l’interruttore che c’è e che premo. Non s’accende un cavolo. Cambio stanza e ci riprovo. Ho successo: la solita lampadina disperata si accende e guardo… vedo… non so come dirlo. Alla luce sbilenca e ingrigita anche lei dalle ragnatele, mi appare una pazzesca fuga di scaffalature di mogano, con dentro, fitti fitti, decine… no, centinaia di volumi, resi identici dalla polvere e, molti, smozzicati dai parassiti, ma nell’insieme una maestosa, una meravigliosa biblioteca di testi antichi e, forse, sconosciuti. Cosa capita di pensare in simili frangenti? Io considerai immediatamente il concetto di salvazione e conservazione di quel tesoro. Mi figurai tutto ciò che sapevo e tutti quelli che conoscevo che potessero avere a che fare col restauro e la conservazione di tali beni preziosi. Poi la curiosità mi sottrae a tale libero arbitrio e decido di esaminarne uno. Sposto uno strano soldatino di pietra collocato come a guardia dei volumi con un piccolo esercito di medesimi altri, presumo i paladini di una scacchiera. Ahi, accidenti!, la copertina è logoratissima e, sfilando dalla fila il volume prescelto tirandolo per il dorso, si sgretola. Ci vuole più attenzione. Eccolo, lo spolvero delicatamente, lo apro a metà. I caratteri incisi si stagliano ben netti sulla bella carta antica. Non è neanche “monotype”, è a caratteri mobili, come quelli di Gutenberg. E… ma guarda! Sono elenchi. Ma come?! Sono tutti elenchi?! Spolvero rapidamente tutti i dorsi e osservo: XXI, XXII, XXIII, XXIV… eccetera…
All’interno appaiono due colonne numerate, zeppe di definizioni stampate, accanto alle quali mani e penne diverse hanno posto dei nomi. E si capisce che la cosa ha un carattere progressivo. Devo trovare il primo oppure l’ultimo volume. Ma dove sarà, dannazione. Occorre far luce. Già, ma dove ho visto una candela? La cucina, la lampadina, il tavolo. Ci sono! Accanto alla bottiglia c’era anche una candela. Vado, torno. Ho persino dei fiammiferi che mi hanno regalato in un bar. Accendo. Guardo. Seguo a ritroso la numerazione romana, che mi porta fino al numero due, ma il primo dov’è?. Maledizione. Rifaccio tutto il tragitto e proseguo ancora, convinto che il primo sia stato casualmente ricollocato dentro, senza rispettare la sequenza. Poi mi ricordo che la prima cosa che ho visto entrando era un libro aperto. Torno in cucina, è lì, spalancato con uno strato inverosimile di polvere che lo ammanta. Tolgo via tutto, con cautela. Scopro che sotto ce n’è un altro. Li chiudo ambedue e leggo il titolo del primo volume.
De corruptione.
Historia de li homini perversi et de la loro depravatione nei secoli proximi XIX° et XX°.
 
Come “nei secoli proximi”?
Prendo il volume sottostante, lo apro e vedo che i nomi accanto alle colonne a stampa antica sono scritti con una “biro” bleu. E’ l’ultimo volume, lo capisco al volo. Quello che ci stava lavorando è lo stesso che ha lasciato la sua bevuta a metà e ha “fermato” il tempo colà, rifiutandosi di proseguire. Il perché di tutto questo me lo fornisce una prefazione in testa al primo volume.
Vi si dice che il capostipite e ideatore di questo straordinario catalogo è un tale vissuto nella seconda metà del ‘700 (più sotto troverò una didascalia con l’indicazione della sua scomparsa: 1815). Annuncia la sua appartenenza alla nobiltà e di chiamarsi Jacques e di essere imparentato alla lontana con Diderot. Ma di essere italiano di cultura e di madrelingua. Dice di avere sperimentato su di sé il “cataclisma” della Rivoluzione Francese e di sapere cosa è e cosa sarà. Poi rivela dei suoi rapporti col Marchese De Sade e confessa che lui era uno dei “tristi figuri” delle “120 giornate”. Ecco, dice, lui ha capito questo: De Sade era il rovescio della medaglia della Rivoluzione e, come questa arrecherà una diversa e più equa distribuzione dei beni, quello, il “rovescio della medaglia”, produrrà calamità inimmaginabili, diffondendo in tutto l’Occidente una specie di malattia che eroderà dal didentro le generazioni a venire.  
Queste non saran mai “quietate” e coceranno per sempre nell’acido dei desideri inappagati. Perché di qui, da questo “illuminato” capovolgimento del mondo, il genere umano inizierà la sua corsa irrimediabile verso i desideri, che, quanto più saran desiderati, tanto meno produrranno soddisfazione. Si dichiara poi “aperto” al mondo e di aver parteggiato per la Rivoluzione, sempre. E ritiene tuttavia che il compito toccatogli non sia evadibile, perché si tratta di mettere in guardia il mondo: il boudoir che sta edificando, la sua sala dei piaceri, il suo separé lussurioso esalante promesse senza parole, è sull’orlo del precipizio che lo sta edificando. Ed è un inizio di fine, quest’inizio esaltante del mondo nuovo…
Poi dice: In questo catalogo andrò esponendo i vizii et le sventure che cumuleranno su la humanità ventura, onde dissuaderla dallo intraprendere le dette male azioni. Et anco farò seguitare al riferito elenco i nomi di coloro che di detta scelleraggine macchiatisi saranno. Così, finché io viva, decretai. Et per appresso alla mia morte, dico che i figli et i figli dei figli, perseverino nel nominare coloro il cui biasimo sia giustamente guadagnato, accanto alla colpa commessa. Io, Jacques M., ho fatto tutto questo non per opinione morale, ma viceversa proprio per esser stato io primo a scandagliare l’ebbrezza violenta de la diabolica attrazione de la intemperanzia. Et ho sistemato tutta codesta materia perniciosa in uno ordine crescente, così com’essa si realizzerà sulla terra.  
Ecco, seguiva data e firma, fine.
L’elenco moveva da peccati riconoscibili e abituali, per subito inerpicarsi in una minuta, scrupolosa descrizione dei fatti, assegnando ad ogni piccola variazione la sua debita eccellenza, il suo cantuccio privato ove rilucere integralmente in piena autonomia. Ora, c’era di notevole questo, nella lenta progressione dei temi: che nascevano quasi in sordina, prendendo spunto dal semplice accadere naturale dei fenomeni e si andavano poi gradualmente complicando, come se ad ogni traguardo intervenisse qualcosa ancora a smaniare per superarlo. Per esempio, prendeva sotto osservazione il fenomeno della Fellatio incominciando a trattare di coloro che la praticavano di rado e altre che invece lo rigettavano con sdegno. Ecco, queste ultime, tendevano via via ad assottigliarsi di numero, per scomparire del tutto, poi, nelle citazioni più tarde. Guardai allora con una certa smania io stesso sull’ultimo volume, che stava là sotto. Ivi, sorprendentemente, non v’era più nulla di casi, come dire?, così semplici. Le voci erano divenuta più cupe e con un che di “ultimo” nel suo monito grave, severo, quasi doloroso. Il linguaggio era occulto e sembrava paventare sciagure apocalittiche nella sua scrittura meramente “tecnica” dei titoli che chiamava in causa.   
M’interrogai allora: “Fin dove può spingersi l’uomo nella sua foga di portarsi sul limite estremo delle sue possibilità fisiche? Cosa dovrà trovare ancora nel sesso, oltre la soddisfazione sessuale? Cosa può esserci nel guardare di più che guardare, e nell’urlare di più che urlare e nel sentire di più che sentire? Cosa scoverà l’uomo oltre la sazietà del mangiare e dell’amare?. E questo affanno, questa bramosia, non vanno di pari passo con la macchina dell’intelligenza che, nel suo prodigioso arricchimento, magari a generale insaputa, compulsa dialetticamente più appetiti, più bestiali? Ossia, più lo sforzo morale si fa alto, più in basso precipita l’affamato nichilismo dei sensi? E’ l’intelligenza ad abbattere gli Dèi rassicuranti del super-io e a consentire lo scatenamento di passioni deliranti ed autodistruttive?“
Girai a caso le pagine sbiadite del librone aperto e quello scattò spalancandosi in due metà proprio laddove era rimasto aperto per anni, sotto il peso dell’altro. Due aliti di polvere vaporarono ai lati, facendo tremolare la fiammella accesa. Erano le ultime due pagine vergate di nomi con la biro. Sopra vedevo uno scritto a mano, in bleu e con la calligrafia medesima dei nomi. Il testo parlava di Prostituzione alla necrofilia; prostituzione alla coprofilia; omicidio sessuale; cannibalismo… homini si divoreranno con homini et femine et piccoli pargoli; si nutriranno di lor escrementi et dipoi sopprimeranno con atti di vandali i più gioveni et tutti, femine et homini, faranno scempio osceno dei piccoli morticini et ne coceranno le carni et se ne sfameranno con esaltazione di bestia… Exsisteranno machine per far mostra pietosa di ciò et le moltitudini prenderan parte con frenetico orgasmo alla collectiva pazzia de li altri acuzzini… Tutto questo sarà verso la fine del secolo XX°.
Lessi i nomi posti poi accanto a tali funeste profezie e ne restai sbalordito. Erano tutti nomi di facce celebri che tornavano subito in mente. E mentre li scorrevo mi domandavo  Come, questo ama i morti? E questo ama gli escrementi?E questo si mangia… sarà mai possibile? E lui come faceva a saperlo?
E intanto che così mi interrogavo, non so perché, ma discendeva dentro di me un’amara certezza intorno a quelle forsennate follie. Non so dire come né perché, ma d’improvviso ebbi la consapevolezza del mondo in cui vivevo e della sua agonizzante vecchiezza e delle sua mortale rassegnazione. Un mondo tutto sommato morto, che per sentirsi dentro ancora un soffio di vita, doveva far ricorso a frenesie scellerate e ad una abiezione senza confine.
Lessi l’ultimo scritto vergato con la biro bleu, già sapendo che si trattava di un commiato. Diceva così:
Oggi, col muro di Berlino, è caduto anche l’ultimo baluardo di quel nostro epidermico idealismo che aveva dato sprone all’Illuminismo prima, e al Socialismo poi, lasciando il campo avverso completamente sgombro e facile preda della oscura reazione. Ma tale antinomia non si risolveva in una opposizione di stampo oscurantista. Nossignori. E’ stata la rivolta delle pulsioni, che si sono ribellate alla egemonia di un sapere che le aveva sottratte all’aura sacrale in cui esse per tanti secoli s’erano crogiolate. Un’aura falsa, d’altronde, ove ci si lambiccava nell’illusione di un Dio che presiedesse ritualmente all’ente carnale, inteso come amore e quindi, in ultima istanza, diretto a lui. Un Dio che quindi suppliva sia da garante che da severo quantificatore di tali beni. Il sapere che l’ha abbattuto non gli è migliore, è un falso altrettanto, solo che adesso ci siamo ridotti ad arrangiarci con un orizzonte laicizzato, in cui nessun entità estrinseca è più in grado, non solo di fornire risposte alla teodicea, ma neanche di immaginarsene una.
Così, il “reazionario” fa : perché non devo fare il male, se, come sta sull’Etica nicomachea, è per il mio piacere che lo faccio? Questo è più di quello, e basta!
Allora vi dirò che cosa è reazione e a che cosa è reazione. E’ la struttura duale, binaria, dialettica se volete, della nostra ragione a rendere inevitabile che essa induca, sempre, una reazione eguale e contraria (uguale per intensità e contraria per sostanza) ai propri atti. Anzi, quanto più la nostra intelligenza si innalza come ragione, tanto più alimenta i desideri più neri e li fa sprofondare nell’apocalisse degli istinti – di pulsioni cioè insaziabili e sempre più agguerrite e “surrealiste”. Sicché, in capo al “sapiens” voi troverete il “demens”, e questi, come Hitler, come De Sade, si porranno alla guida del grottesco corteo degli odiatori di sé stessi, cioè della nostra razza in via di estinzione. E, prima o poi, la estingueranno.
Da due secoli scriviamo nomi su questi libri, come monito, come invito alla riflessione. Ma è inutile, è controproducente, perché così facendo cooperiamo alla costruzione di quella Sapienza che cova in sé il proprio contrario, il quale finirà per abbatterla. Perché il veicolo di questo contrario è la corruzione, la depravazione, come asseriva il mio capostipite; ma il suo scopo è lo zero, la catastrofe, la fine del mondo.
Senza la mia firma, però.
Così che io, oggi che è caduto il muro di Berlino e a seguito degli eventi “globali” oramai incombenti, lascerò cadere nel vuoto il mio compito al mondo e lascerò per sempre questa casa e i nomi e i segreti che contiene per non tornare mai più indietro. Con ciò questa enciclopedia giunge alla FINE. 
 
Così me ne ristetti un po’ di tempo puntando la parola “fine” triste e interdetto. Tutti questi volumoni antichi con la loro preziosa scaffalatura in mogano e la casa che li conteneva e tutti quei nomi – tutto mi apparteneva. Ora compresi perché mi riusciva così facile capire al volo tutto quello che incrociavo là dentro: era per dire così tutta la mia “memoria genetica” che riemergeva, richiamata al lavoro dagli oggetti della memoria famigliare. La rivelazione dell’esistenza di questo luogo, fattami sul letto di morte da uno zio, aveva scoperto anche gli antichi “nervi” del mio DNA. E ora che avrei fatto? A chi avrei rivelato a mia volta di questa ricca miniera di pessimismo e di degradazione? Me la sarei tenuta per me? L’avrei data alle stampe, con su i nomi di bei tipi ancora in auge su schermi e scranni di TV e potere? L’avrei sigillata per sempre? L’avrei distrutta? Mi sentivo completamente annichilito sotto la volta oscura dei soffitti altissimi da dove, come impiccata, pencolava impolverata la lampadinetta col suo debole barlume.
 
 
 
 
 
 

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