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Eccoci tutti quelli degli avamposti.

Al limitare ultimo: una ciocca
e, appena sotto, la residenza di torpori;
eterni non saremo - per il continuo procurare corsa -
ma certo durerà quest’ansia a crescere speranze
dispersi nel ghibli di tutte le stanchezze, che ci spostano i passi fino a confondere le suole
e il sole.
 
Dateci un mattino di caravelle
andremo sulle vele maestre a fare vento di scoperte
andremo sulle tolde a queste nuvole di pioggia
che non lasciano i moli delle vette:
non trapassano; non si dissilvono
come pulsioni eterodosse
nelle carene dell’amore.
 
Non createci, vi prego, il dubbio della rotta.
 
E prego voi che foste i porti, e coloro che armeggiano nei seni
della costa,
ad aprire il ventre delle latitudini
ai nuovi sbarchi, alle piccole isole del cuore.
 
Perché, poi, dovremmo essere solo uomini e non già
un tufo, un mais, un gufo?
Non ho durezza anch’io dall’età?
Non ho forse le mie radici?
E gli occhi, non sono forse avvezzi alle nott’insonni?
 
Abbiamo lame in bocca che l’anima non tocca, ma la lingua,
la lingua è un perfetto lanciatore.
Le voci sono siepi articolate: un conto è fiorire, altro sarà
comprenderne la potatura.
 
Toccano echi le mani: si toccano sì parlandosi.
Tocchiamo le vocali, dai, cambiamo i rumori in spiccioli sonanti
e a i lumini diamo fiamme adatte a pensarsi faro
sulle scogliere perse
per le onde che sulle dita stanno come fedi:
ferme; al seguito sugli occhi, coralli e palmi.
 
Sulle pareti che ti sanno attesa un quadro
di pazienza.
 
Non verrà qui l’inverno, oggi. E’ fuori il gelo.
Cade la neve che mai sciolse la sua chioma di freddo.
Ma non posa: sciolta va allo stomaco dei fossi. Scorre la bianca chioma e morbida
profila i guadi di sapienza, che intristirono i folli:
il nudo di un pensiero caldo che fu già ieri.
 
Come un oceano hai costole di sale
e sulla gabbia del torace scivola la notte
col suo raggio a pelle.

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