Scritto da © Anser - Ven, 05/08/2011 - 22:33
«Non voltarti, che il tempo è vento secco!
Si sbriciola, come un’altalena di sete»
ti dicevo, e l’orizzonte era piegato,
la nave un punto tracimato dall’infinito,
una lacrima di mare stracciata al tempo,
dai sorrisi delle donne di Mimizan, perdute
a rammendare orli di cuori scuciti dal sale.
«Vai avanti, piega il timone, che la notte
è miseria d’osteria e un culo di donna»
rispondevi, e i tuoi seni erano il sorriso di dio
le onde erano la cifra colma d’ogni sorriso,
d’ogni desiderio d’amore, tracciato
su un confine di dune, su un’impossibile segno
scritto a nutella e baci su bagnasciuga alieni.
«Avanti dove? Che ogni punto si rassomiglia
ed esiste una sola direzione, un solo passo»
e tu mi toccavi, a due spazi appena dal dolore
dove la scorciatoia per l’infinito
è una danza di cormorani, una voce di delfino
quell’eco d’Atlantique che ricorda
e confonde sesso e amore, tango e luce.
«Vai avanti, e taci, capitano. Non perdere il senso
che abbandona il mare su rotte senza fine»
e stavi nuda, sul ponte di cristallo, a toccarti
tra le gambe ed il domandare eterno d’Orione,
ed ogni porto era miseria ed abbandono
e il sapore caldo e asciutto d’un grembo di miele
lo spavento e l’urlo che attraversa i poli del cielo.
«Io vado, vado, ma tu non lasciare il fiato
che tende le vele, sino a scoppiare»
e solo allora ti scioglievi in un orgasmo di luce
tremando, sul sole che moriva al di là di sé
e ogni stella s’accendeva a raccogliere il velo
negro e vuoto d’ogni altrove di mare
e io cantavo una canzone, per non morire.
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