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I piaceri corporali, i piaceri che soddisfano gli appetiti pulsionali, sensuali, gastronomici persino, sono inversamente proporzionali ai beni della psiché, ossia dell’anima e del senno. Quanto più questi si diradano, tanto più quelli “spingono” verso una compulsione “diabolica” che induce all’abiezione. Il Logos, il grandioso acceleratore d’umanità, svuotato di senso dà avvio ad una sorta di marcia indietro, ove l’attenzione verso l’amor proprio, l’etica, la gratificazione umanistica che gli è propria, che pertiene alla sua radicale fondazione ontologica, ossia l’attenzione verso ciò di cui consiste e per cui esiste, viene girata altrove. E non trovando tuttavia scampo alcuno in nessun meridiano, in nessun parallelo dell’universo-mondo dato e concreto, ritiene tuttavia di trovare il piacere laddove invalida ed esilia il senso. Ma il piacere abita la casa delle pulsioni, una casa che, non fortuitamente, per innumerevoli schiere di pensatori e metafisici d’ogni luogo e tempo è una sorta di “pendolo del diavolo”, col quale questi droga e pietrifica l’umanità, come la moglie di Lot. E’ il segreto del pater noster: non ci indurre in tentazione. Cioè, fa così che, attraverso la forza dialettica sia reso possibile schivare la trappola del piacere, per trovare invece ciò che si è già. Ossia, l’essere è il senso del Logos, e vi si contrappone il piacere come sua caduta, come suo fallimento. Sebbene permeato di moralismo religioso, questo ammonimento ci fornisce la traccia di una intuizione che è onnipresente nella coscienza razionale dell’uomo. La percezione cioè della opposizione tra il godere e il trascendere, fra il piacere e l’estasi. Perché siccome l’oggetto finale del piacere sta comunque nel saperlo, nella coscienza del soddisfacimento, questo non arriva mai, perché va cercando qualcosa di alto il più in basso possibile. Il piacere cercato dalla coscienza del piacere non può semplicemente arrivare dalla soddisfazione degli appetiti naturali, cioè indietro rispetto al punto di partenza. Poiché in quanto atto di quel Logos in cui volenti o nolenti ci troviamo immersi, nasce già dopo, oltre il dato naturale che ci fa esistere con la nostra struttura e le nostre attitudini naturali.
Diventa perciò un ripiegamento infausto quello che induce a cercare nel piacere sensuale una specie di fuga dal dolore esistenziale. L’esperienza umana e umanistica è necessariamente dialettica, in quanto tale è dolorosa e inevitabile. Il rifiuto di questo dolore è soltanto apparente, come insegna la psicoanalisi (per esempio lo psicoanalista-filosofo Mitscherlich). Diventa il rimosso. E chi naviga dentro questo stato cerca fatalmente il piacere, onde rivalersi nell’inconscio del suo problema inconscio. Così non trova né l’uno, né l’altro; né il piacere, né tanto meno la soluzione del problema. Che sta, come dice quel filosofo, nella accettazione della realtà: l’uomo deve accettare il dolore che il suo status comporta, e solo dopo potrà trovare ciò che davvero vorrebbe, cioè la quiete e il senso della propria vita. Cioè, l’estasi, la condizione estatica. Come dicevano i padri greci: il puro atto in sé, il pensiero di pensiero.
Ma questo è un compito difficile per l’umano, una Odissea dell’autocoscienza ove l’oceano è l’inconscio e noi la barchetta che ci caracolla dentro, con la speranza irrisoria di un approdo e l’allettamento straziante delle sirene che ci dicono di lasciar perdere e abbandonarci invece al loro orgasmo vampiro. Così scatta la grande frode che il (troppo) umano ordisce contro se stesso. Così l’uomo cede all’auto-inganno di rimpicciolirsi davanti a sé, di farsi passare per meno di quello che è. E sente che il desiderio sopravanza il Logos, cioè ciò che è; che quello è più grande di questo, cioè di lui stesso. E, come diceva Thomas Mann, si abbandona all’ebbrezza infernale…
E’ infernale credere che noi siamo fatti per il piacere. Non siamo fatti per. Siamo fatti e basta. Il nostro compito al mondo potrebbe configurarsi come quello di passar oltre, oltrepassare il breve filino che circoscrive il nostro campetto esistenziale. E non quello di coadiuvare per sempre, fino alla bulimia, ciò che è già ascritto al nostro destino naturale. Fare troppo quello che già dobbiamo per necessità, lungi da aprire una qualche variante trascendentale, cala il sipario sull’orizzonte asfittico del già dovuto e richiude sull’essere la porta che il Logos gli aveva dischiusa.  
 
 
 
 
 

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