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Due piccole foglie di castagno

A guardare bene, aguzzando gli occhi là, oltre il limite di quella collina, tra un castagno e l’altro, il rosso dei coppi spuntava come fiamma di vita esplosa verso il blu del cielo. Ogni volta, alla loro vista, un senso di angoscia mi prendeva, conoscevo a memoria quali sarebbero state le mie mosse successive, i miei pensieri, le mie paure. Conoscevo quel tetto, quel cappello rosso che proteggeva la casa oggetto della mia inquietudine delle mie apprensioni. Spuntava dal verde in lontananza come un fungo, uno di quei classici funghi bellissimi al vedersi ma altrettanto velenosi e letali. Mura di calce bianchissima, stranamente candide, virginee, senza il minimo segno dello scorrere del tempo e delle intemperie circondavano la costruzione. Una porta in legno di castagno massiccio, imposte dipinte di un verde improbabile che denotavano la voglia di mimetizzarsi, di non insultare oltremodo l’ambiente circostante con la loro presenza avulsa dal contesto.

Desiderio represso di essere accettata come parte integrante del panorama, della natura che la nascondeva e in qualche modo la fagocitava. Mi era capitato spesso di incrociarla, a volte me la trovavo dinanzi all’improvviso, quasi spuntasse dal suolo così, come i funghi nel profondo delle forre o ai piedi degli alberi. I castagni, appunto. Pareva vivesse di vita propria, autonoma, completamente indifferente all’insulto che la sua presenza recava alla quiete e allo scorrere della vita silvana. Appariva e scompariva, sempre uguale, arrogante con i suoi colori sempre vivi, splendenti, come se un misterioso truccatore ne curasse l’aspetto, rinnovandone la vivezza dei toni di volta in volta. Finché un giorno decise. Si stabilì definitivamente là, tra i castagni, oltre il limite della collina. Inevitabilmente il mio sguardo correva lì ogni volta e come sempre quel senso di vuoto, misto a morbosa curiosità, mi attanagliava lo stomaco…
 

[è un lungo trascinare l’anima pei campi
aridi solchi dove il grano germoglia annoiato
ai piedi del colle che lo assiste accigliato
c’è quel sentiero che allarga l’orizzonte
sali a cogliere l’azzurro, abbandoni il solco
oltre il limitare del tuo sguardo, tra i castagni,
il sole sta morendo, ma tu non te ne accorgi… ]

 
Divoro la distanza a passi concitati, mi avvicino a lei con circospezione e timore ma con una voglia incontrollabile di entrare, violare quella inquietante, insopportabile arroganza. Come sempre mi fermo dinanzi all’uscio, una sorta di tremore montante impedisce i movimenti, mentre rivoli di sudore gelato scendono lungo la schiena e le gambe si fanno di gesso. Così, mentre combatto contro la mia stupida, seppure concreta paura, nella mente lentamente vanno formandosi immagini in rapida sequenza, come in un film, in slow-motion. Apro la porta senza alcuna difficoltà. Un ingresso anonimo mi accoglie, pochi mobili in legno di castagno, un tavolino là, un divanetto qua. Sul muro carta da parati di gusto un po’ pacchiano: malinconiche foglie gialle e verdi si rincorrono, falsi simulacri di una natura ormai asservita. Ecco che mi vedo mentre percorro i pochi metri dell’ingresso, superando il tavolino alla mia sinistra mi ritrovo nel salone. Un pianoforte attende muto in un angolo, un divano dalla tappezzeria in nuance con quella del muro, anche qui foglie gialle e verdi sparse in forzata allegria, sembra attendere tronfio e discretamente annoiato.
 
Mi siedo, sono stranamente stanco, quasi avessi percorso chilometri in quel bosco. Ora posso guardarmi intorno con più calma, il salone è grande , forse troppo, ho l’impressione che qualcosa non funzioni, la casa pare avere un a unica stanza, pare non ci siano altre stanze . Tutto in ordine, le suppellettili, i mobili, tutto lindo e pulito. Sembra quasi che un’impresa di pulizie abbia terminato il suo lavoro da poco. Eppure una strana atmosfera, un’indefinita sensazione di vecchio e di polveroso mi prende alla gola, quasi avessero da poco alzato un sipario e avessero rinnovato la scena lucidando e pulendo ogni dove per la bisogna, per una nuova recita. L’iniziale stupore lascia il posto a un più regolare battito del cuore e i pensieri più razionalmente cominciano ad affollare la mia mente. A questo punto una strana sensazione mi pervade: io questo posto lo conosco! Qui ci sono stato altre volte, sono sicuro. All’improvviso tutto ha un sapore di dejà vu, già vissuto.
 

[al dolore del richiamo risponde l’ignavia
se la ragione non ti interpella il cuore non mente
è inutile fuga verso l’approdo sicuro…]

 
Mi alzo di scatto, il sudore ha ripreso a scorrere lungo la schiena e non risparmia neanche le mie mani. A passi malfermi, quasi circospetti mi avvio verso la porta con un unico desiderio: uscire, fuggire da questa casa, dall’angoscia che mi trasmette. Un particolare attira la mia attenzione mentre sto per uscire: sopra il tavolino di castagno è appeso un quadro. Niente di strano, penso, ma è appeso al contrario, mostra di sé il retro, nascondendo l’immagine contro la parete. Nonostante l’apprensione che mi avvince, la curiosità mi costringe, mi fermo. Con mano insicura stacco il quadro dal muro, lo giro e…mi vedo, sì mi vedo! Sono io in una fotografia recentissima, seppure riprodotta in color seppia, quasi fosse un’antica dagherrotipia di fine ottocento. Tutto gira intorno a me, mi aggrappo invano al tavolino e cado.
 
Il rumore del comodino di castagno nella mia camera fa da eco alla imprecazione che fuoriesce quasi vendicatrice, liberatoria del terrore che mi ha accompagnato sinora. Siedo sul bordo del letto  mentre a pugni chiusi, il cuore a mille, urlo a me stesso: è un incubo!, sì è stato un incubo, solo un incubo…Una fitta dolorosa mi attraversa la mano. Lentamente, dolorosamente, nonostante le nocche livide dallo sforzo e con il cuore che accelera apro il pugno e scopro il motivo del dolore che poco prima mi aveva attraversato: stringo fra le dita una chiave! Una stupida, banale chiave di ottone, comunissima come tante, se non fosse per un particolare, su un lato c’è un’incisione smaltata, una miniatura. Due foglie di castagno, una gialla e una verde… 
I coppi rossi laggiù, oltre il limite della collina, mi stanno aspettando. 
 

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