Scritto da © Bruno Amore - Ven, 12/02/2010 - 09:31
Da sempre desideravo, voluto, un chilometro di mondo tutto mio, per spargermi e disperdermi, invadere, tutta la meraviglia là fuori. Fantasticare attorno a qualsivoglia stimolo ti sfiori, t’impatti, ti sussurri o gridi. Colori, rumori, motti che fanno sempre sorridere gli adulti, che si dilungano poi a commentare sulla tua intelligenza, arguzia o scempiaggine manifestata appena, senza sospettare un minimo per vedere, casomai, fosse esibizione infantile, o frutto di una tattica per attirare la loro attenzione. E avvertivo che potevo accedere a qualcosa di più, soltanto se profittavo dell’infanzia, alle quale, era palese, con la famosa locuzione: se non fossi così giovane…, veniva concesso moltissimo. Perché poi cresci, in casa dove regole familiari, convenzioni, necessità sono stampate e le porte si chiudono ogni volta che hai voglia di andare. Nella scuola, in un’aula, dalle porte guardate, aperte e subito chiuse dietro di te, quasi potessi fuggire, chissà dove poi, se tutti erano, sono, d'accordo bonariamente o meno, di riportarti a casa. Allora, una volta dentro, cercavo alla finestra, dalla finestra il mio veicolo preferito, la fantasia, su cui volare via lontano. Viaggiavo lunghi minuti via da lì : ..lavavo il ponte della nave dell’Olonese (bellissimo nome) che mi consegnava un daga al merito;…… rientravo, rincorso dai gendarmi, nella Corte dei Miracoli, mostravo la bellissima collana rubata, ero compensato con una moneta d’argento dal lenone… e, infine, quasi sempre finire, inopinatamente, costretto tra muro e lavagna. Grida e scappellotti al ritorno a casa, la solita predica sul senso di responsabilità, sulla fortuna di poter andare a scuola, anziché già al lavoro come tanti coetanei. Ma il giorno dopo, o deliziosa inebriante occasione di vendetta, feroce, sapida nell’esecuzione dell’illecito, ma fiducioso nell’autogiustificazione, marinavo, fuggiasco a vagare nella campagna, lucente di rugiada, lontano da adulti curiosi. Tuttavia mi ronzavano le orecchie, al presagire nuovi rimproveri e preparavo argomenti vittimistici per scamparla anche questa volta. Ma…via, a quel viale di meli fioriti, al bivio per casa, dove una ragazzina dagli occhi neri, seduta tra l’erba di una proda, legava rametti fioriti di melo per esitarli ai rari passanti. Un rituale romantico legato alle mie fughe, un posto segreto dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarmi. Non frequentava la scuola, suscitando in me una larvata invidia, non capivo perché restava lì ore, fino all’uscita degli scolari e il ritorno degli adulti dal lavoro, condivisione di riti, forse. Affascinante mistero, e io sempre un poco imbarazzato, sedevo più là, da vedere la testa bruna spuntare dall’erba alta, confidenzialmente. Avrei voluto parlarle, chiederle, dire, ma non riuscivo a trovare il modo. Inconcludente, non articolavo verbo e dopo un po’ mi trascinavo via sorridendo; lei appena un cenno col capo e si chinava sul consueto. Volli di più, un giorno, e mi nascosi a spiar dove andava, cosa avrebbe fatto non vista: Scese dal greppo scivolando seduta, raccolse tra l’erba due piccole grucce, fatte in casa con amore, si issò su gracili gambe troppo storte, avviandosi, scomposta, per il viale di meli fioriti, verso casa appena più su. E non persi più un giorno di scuola.
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