The Cure - "Three Imaginary Boys" (seconda parte) | Recensioni | Massimiliano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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The Cure - "Three Imaginary Boys" (seconda parte)

E su queste ombre Robert Smith costruì una delle più spettacolari e intense parabole della pop music, dando dignità artistica (e un successo planetario) non solo ad incubi, visioni e paure, che a metà degli anni Ottanta il Nostro, con insospettabile acume commerciale, avrebbe trasformato in “plaquette” parodistiche e autoreferenziali assurte a una popolarità quasi impossibile, ma anche a melense, infantili canzoncine d’amore e felicità che definire stucchevoli è eufemico; il tutto, va da sé, sapientemente condito con un tocco (magico e ruffiano) d’irresistibile melanconia gotica e tristezza romantica, retaggio delle funeree crisi esistenziali che ammantano claustrofobicamente gli anni 1980-1982, triennio nel quale hanno visto la luce i tre capolavori della band - il già citato Seventeen Seconds (1980), Faith (1981) e Pornography (1982) - in un crescendo di disperazione, sia artistica che esistenziale, talmente intenso da risultare insopportabile. E infatti, nel giugno del 1982, i Cure non si sopportano più e implodono sul palco, con una scazzottata memorabile.
Che il nostro adiposo depresso sia stato o meno il papà del gothic (nella nostra Italietta provinciale si chiamava ‘dark’) poco importa – di certo è colui che ha regalato al genere una popolarità planetaria.
Abbagliati (si far per dire…) dal chiaroscuro dell’immagine goth – pallore cadaverico, capelli spiritati, rossetto rosso sbavato e abbigliamento rigorosamente nero - è facile dimenticare quanto sia brillante e geniale il Robert autore di canzoni: chi ha familiarità solamente coi Cure “classici” (e/o dell’ultimo periodo) potrebbe rimanere sbigottito dall’ascolto di Three Imaginary Boys. I suoni ruvidi, acidi, secchi e scarni sono in perfetto stile new wave e richiamano alle orecchie i coevi Buzzcocks, Wire e Gang Of Four, più che i Joy Division. A onor del vero, giova ripeterlo, stando a quanto dice Smith, non era questo il suono che egli voleva, e più volte si ha quasi l’impressione di ascoltare un demo, per quanto ben fatto.
L’onere/onore dell’apertura viene affidato a quello che probabilmente è il capolavoro dell’album. “10:15 Saturday Night” è un rock spigoloso, a suo modo evocativo, che narra l’ansia, l’angoscia dell’attesa, velenosamente scandita da quel “drip-drip-drip…” alla fine di ogni strofa, che imita lo sgocciolare del rubinetto.
Il sovversivo grido nichilista del “No future” di due anni prima vomitato in faccia alla nazione inglese da Johnny Rotten, si trasforma nel sussurro esistenzialista di “It’s always the same” consegnatoci dalla secca,  gelida voce di colui che sarà l’icona “dark” per eccellenza, assieme alla magnifica Siouxsie. Da notare che anche nello splendido singolo d’esordio, “Killing An Arab”, Smith cantava: “Whichever I choose, it amounts to  the same: absolutely nothing.” Affiora il topos dell’assurdo, a ben vedere, fin dai primi vagiti.
Di buon impatto anche il riff minimale di “Grinding Halt”, e degli episodi più contigui al punk (più nel suono che nello spirito, in verità), “Object” e “It’s Not You”, che conservano comunque una vena apertamente parodistica nei confronti del “movimento.” Di certo non sono questi i brani su cui costruire una carriera e i “tre ragazzi immaginari” (che qui rispondono ai nomi di Robert Smith, chitarra e voce, Michael Dempsey, basso, e Lol Tolhurst, batteria) ne sono ampiamente consapevoli, tanto da infilare i due brani in posizioni “da riempitivo” (con insospettabile sagacia).
 

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