The Cure - "Seventeen Seconds" (Prima parte) | Recensioni | Massimiliano | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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The Cure - "Seventeen Seconds" (Prima parte)

E l’America? Three Imaginary Boys era un disco squisitamente europeo; difficilmente il pubblico americano avrebbe potuto capirlo. All’epoca, gli Stati Uniti erano il metro di misura del successo e qualsiasi artista con un minimo di ambizione doveva fare i conti col pubblico a stelle e strisce.
Chris Parry, non certo l’ultimo arrivato, ne era perfettamente consapevole, e credeva – forse non a torto – che i Cure, e in particolare “Boys Don’t Cry,” possedessero un buon potenziale commerciale. Decise quindi di produrre una versione “americana” del primo album, assemblando brani tratti da Three Imaginary Boys e dai singoli. Il risultato è un “prodotto” sicuramente più fruibile, che tuttavia manca della coesione dell’esordio. “Jumping Someone Else’s Train”, pubblicato anche come singolo (il terzo, dopo “Killing An Arab” e “Boys Don’t Cry”) è un’altra piccola perla pop (ah, quell’accordo aperto che apre il brano in odor di Who!), eccitata e stridente, anche se non possiede la cantabilità e gli hooks del suo predecessore. Ciò che rende interessante il disco, è l’inclusione della modesta “Plastic Passion,” reperibile solo come b-side del secondo singolo, e dell’abominevole “World War,” inedito assoluto e assolutamente prescindibile. Ovviamente, e forse in modo piuttosto scontato (ma non dimentichiamoci che doveva essere un disco “americano”), l’album/compilation fu intitolato “Boys Don’t Cry.”
 
L’estate/autunno del 1979 vede il primo di una lunghissima serie di cambiamenti nella line-up della band: Michael Dempsey, in disaccordo con la direzione che Smith voleva dare alla musica dei Cure, abbandona il gruppo e viene rimpiazzato da Simon Gallup. Smith, che per il secondo album ha le idee chiarissime e sa perfettamente il tipo di suono che vuole - i due punti di riferimento sono Five Leaves Left di Nik Drake e Low di Bowie - inserisce anche un tastierista, tale Mathieu Hartley (sparirà nel nulla già alla fine dell’anno). Non contento, bandirà letteralmente Chris Parry dagli studi di registrazione. Smith attraversa in questo periodo la prima fase depressiva, e il suo mood si rifletterà nella musica malinconica, funerea, oscura e a tratti violenta dei tre album successivi, che sono da considerare la vera e propria trilogia dei Cure “classici” e ne definiranno il sound per almeno un decennio.
Il risultato è a dir poco sconvolgente. Sparisce il pop orecchiabile, sparisce il rock (non c’è una sola nota che possa essere definita rock, né qui né nei due dischi successivi), spariscono i retaggi punk e spariscono pure la varietà, e quei tratti di “danzabilità” con cui i Cure avevano giocato nell’esordio. Ne viene fuori un’opera suprema, sublime, che mappa le ustioni del male di vivere. La (auto)analisi di Smith è quasi maniacale e sfocerà nel nichilismo di Pornography.
“Seventeen Seconds” è un disco languido, malinconico, triste, cupo, a tratti angoscioso ma con una venatura maledettamente romantica. La chitarra ricama accordi a fior di nervi, dal suono liquido che s’insinua sotto la pelle e fa vibrare i nervi; non è mai distorta o aggressiva e, pur essendo ancora lo strumento che fa la parte del leone, tende a non invadere lo spazio creato dagli altri strumenti, quel senso di vuoto claustrofobico che sarà il marchio del loro sound da qui in poi. Questo è il disco dei silenzi, del dolore esistenziale appena sussurrato: il suono è sempre scarno, lineare e minimalista ma possiede una qualità ineffabile che Three Imaginary Boys non possedeva. Il basso profondo di Gallup detta cupe cadenze che solo un non-batterista come Tolhurst avrebbe potuto seguire così bene: i tempi sono tutti lenti, metronomici, suadenti, si potrebbero definire “aritmici” (provate a ballarci, se riuscite), quasi ossessivi.
L’apertura è affidata al requiem di “A Reflection”, brano strumentale per piano, chitarra e basso. Intriso di desolazione, rassegnazione e di quell’atmosfera “enigmatica” tipica di Smith & co. spiazza pubblico e critica, che avevano ancora nelle orecchie l’esuberanza giovanile dell’esordio, e stavano ancora canticchiando “Boys Don’t Cry,” sotto la doccia. Già la copertina, forse anche più pretenziosa rispetto a quella dell’esordio (che manteneva comunque un certo grado di autoironia) è terribilmente “intellettuale”: un’immagine sfocata con pochissimi colori attenuati, dove il bianco la fa da padrone. E tuttavia rappresenta compiutamente l’affresco musicale che contiene: poche pennellate d’acquarello su una massa di vuoto silenzioso.
 

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