Scritto da © Hjeronimus - Dom, 01/01/2012 - 19:04
Ho vissuto sotto un altro cielo. Senza accorgermene, senza pensarci, ho attraversato la strada della vita altrove, in una vita altra, simile ad una apparizione nel deserto.
Ho sgarrato, ho travisato i punti cardinali e mi sono ritrovato su una carta imaginifica, come la mappa di un tesoro che non c’è. La mia rosa dei venti si chiamava metafisica, ontologia, ermeneutica- cose eteree, impalpabili, incongruenti. La vita non è così, non c’entra nulla con le cristallizzazioni carsiche del sapere. Questo magari è il treno dell’ego, un treno vecchio e bizzarro che viaggia su un binario morto, verso un “Erehwon” qualsiasi ove assurdamente regni la logica, e non la libera balordaggine della vita.
Ma la vita è più questo che quello. Inutile spaccarcisi le meningi sopra, inutile discettare all’infinito intorno a “enti” o potenze ineffabili. La vita ha fame, sempre. E soltanto questa cieca fame è la sua determinazione fondamentale. Su questo, come dar torto a Schopenhauer?
Ma dentro questa fame, dentro questa vita, ci siamo noi, ci sono io. E quest’altra cosa che chiamiamo coscienza, autocoscienza, logos, anima, intelletto e chissà cos’altro, gli si incaponisce contro e non vuole genuflettersi alla sua legge inesorabile. Questo esserci non accetta la datità della vita, per così dire, e pretende che essa sia diversa da sé, che si sublimi, si trasfiguri. Pretende una verità che non le si addice, una alethèia dischiusa solo dalla fantasticheria, dalla lingua, dalla grammatica- tutti oggetti di cui non c’è traccia nella fame notturna della volpe, qui fuori, cui ogni tanto getto un tozzo di pane vecchio, o nell’urlo disperato dell’allocco, che dalla notte impervia della montagna dirimpetto esala tristi strie sonore che tingono di violacea costernazione la volta nera dell’universo.
Questo è la vita: fame, disperazione, desiderio… non c’è modo per placarla, perciò assistiamo inerti, impotenti, esterrefatti alle sventure della razza disgraziata cui apparteniamo; perciò il capire, l’intendimento logico degli assurdi contorcimenti della storia umana non può essere garante di alcunché a rimedio contro questa pazzia che rechiamo in anima e corpo, gli uni contro gli altri… E chi, come confesso, ha vissuto solo per tale comprensione, solo per questa speculazione sulla vita fatta di fame, né ha compreso quella, né ha soddisfatto l'altra, ahimè...
Ho sgarrato, ho travisato i punti cardinali e mi sono ritrovato su una carta imaginifica, come la mappa di un tesoro che non c’è. La mia rosa dei venti si chiamava metafisica, ontologia, ermeneutica- cose eteree, impalpabili, incongruenti. La vita non è così, non c’entra nulla con le cristallizzazioni carsiche del sapere. Questo magari è il treno dell’ego, un treno vecchio e bizzarro che viaggia su un binario morto, verso un “Erehwon” qualsiasi ove assurdamente regni la logica, e non la libera balordaggine della vita.
Ma la vita è più questo che quello. Inutile spaccarcisi le meningi sopra, inutile discettare all’infinito intorno a “enti” o potenze ineffabili. La vita ha fame, sempre. E soltanto questa cieca fame è la sua determinazione fondamentale. Su questo, come dar torto a Schopenhauer?
Ma dentro questa fame, dentro questa vita, ci siamo noi, ci sono io. E quest’altra cosa che chiamiamo coscienza, autocoscienza, logos, anima, intelletto e chissà cos’altro, gli si incaponisce contro e non vuole genuflettersi alla sua legge inesorabile. Questo esserci non accetta la datità della vita, per così dire, e pretende che essa sia diversa da sé, che si sublimi, si trasfiguri. Pretende una verità che non le si addice, una alethèia dischiusa solo dalla fantasticheria, dalla lingua, dalla grammatica- tutti oggetti di cui non c’è traccia nella fame notturna della volpe, qui fuori, cui ogni tanto getto un tozzo di pane vecchio, o nell’urlo disperato dell’allocco, che dalla notte impervia della montagna dirimpetto esala tristi strie sonore che tingono di violacea costernazione la volta nera dell’universo.
Questo è la vita: fame, disperazione, desiderio… non c’è modo per placarla, perciò assistiamo inerti, impotenti, esterrefatti alle sventure della razza disgraziata cui apparteniamo; perciò il capire, l’intendimento logico degli assurdi contorcimenti della storia umana non può essere garante di alcunché a rimedio contro questa pazzia che rechiamo in anima e corpo, gli uni contro gli altri… E chi, come confesso, ha vissuto solo per tale comprensione, solo per questa speculazione sulla vita fatta di fame, né ha compreso quella, né ha soddisfatto l'altra, ahimè...
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