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Come nasce e muore una passione

Mauri a Boscomantico 2004
La prima volta fu per caso, senza averci mai pensato prima. Una croce su un quesito d'un test della visita di leva, alla caserma Martini, e quel che ne conseguì fa parte di un'altra storia, ormai. Anzi, di un'altra vita: la mia prima. La seconda non fu un caso e non fece parte della prima né della mia seconda vita, ma della terza. L'attuale. Solo di striscio riguardò, anzi, riprese un po' la prima. Diciamo nell'ispirazione. E qui devo fare un passo indietro.
Come nasce una passione? Da un'idea, in primis, una voglia o poco più, che però, invece di andare e venire, resta. E un po' alla volta diventa un'esigenza e poi un progetto. Di solito con me funziona così. Ed ha un inizio e una fine, se è vero che una volta scrissi "passioni transitorie e intermittenti / non funzionali ai loro stessi fini" distico che mi definisce più di mille altre parole. Questa passione durò sei anni, mese più mese meno, ed eran passati circa vent'anni da quella prima croce che invece mi catapultò, nel lontano 1977, alla Scuola Militare di Paracadutismo di Pisa e alla caserma Vannucci di Livorno dopo. Nel frattempo non c'era più stata nessuna attività specifica, o collegata, né interessamento. La naja fu un capitolo chiuso col congedo e riposto in un angolo oscuro della mente assieme ad altri ricordi della mia prima vita.
Questo almeno fino a una telefonata di un mio collega di lavoro, alpino paracadutista nell’anno successivo al mio, che mi proponeva, anzi ci proponeva, a me a mio cognato, paracadutista pure lui, anche se carabiniere però, e due anni dopo di me, una rentreè. Andata e ritorno alla festa annuale della Folgore a Pisa e Livorno. In un primo momento declinai, perché sono sempre stato immune alle rivisitazioni nostalgico - goliardiche. Per me quando una porta è chiusa è chiusa. Difficilmente la riapro per riguardarci dentro. E quella tale era: chiusa ormai per sempre. E invece vi andai, più che altro per non rovinar loro la festa e fare il viaggio almeno in tre, e poi anche perché ero il trait d’union, visto che, tra di loro, si conoscevano appena.
Fu un viaggio tranquillo: andata dalla Cisa e giù per la Versilia fino a Pisa e Livorno, ritorno dall'Abetone via Firenze e Bologna senza particolari problemi di traffico, visto anche il periodo di fine ottobre. Visita alla caserma, parate, lanci, capatina allo spaccio, qualche distintivo ricordo e poi pranzo alla mensa della caserma, quattro passi in centro e ritorno. Revival puro e nudo, senza troppo trasporto, per tre che in fondo nemmeno eran stati commilitoni veri. Unica cosa in comune, la SMIPAR per tutti e la caserma Vannucci per me e mio cognato, per il resto corpi diversi e annate diverse: paracadutisti io nel 77, alpini il mio collega nel 78 e carabinieri mio cognato nel 79. Gente ritrovata poca, riconosciuta ancora meno, atmosfera generale un po' dimessa. Niente di che.
Di quel viaggio a tre mi ricordo due cose. Il lancio dimostrativo con atterraggio ai piedi del monumento della caserma, e le facce dei giovani commilitoni sotto le armi in quel momento. C'era qualcosa di diverso, qualcosa di speciale che non riuscivo a definire adeguatamente. Ci pensai su e alla fine decisi che erano le espressioni dei volti e un certo tipo di atteggiamento comune. Che peraltro non mi erano mai stati del tutto simpatici, ne l’uno ne gli altri. Credo che sia perché ai paracadutisti non basta aver coraggio, il coraggio di fare qualcosa, in fondo contro natura, che nessun sano di mente farebbe, come saltare da un aereo in volo. Eh no, bisogna anche dimostrarlo quel coraggio, e soprattutto a terra, quando si è in mezzo alla gente comune, che invece non ce l'ha! E lo chiama incoscienza.
Quindi, il parà, che cosa fa? Ti guarda dall'alto in basso! Sempre, comunque, anche quando sei più alto di lui di una spanna. Perché tu sei un misero mortale, mica un semidio capace di sfidare la morte per puro divertimento o quasi, come lui, come loro, come noi. E non c'è niente da fare. Puoi dirgli che tu sei Paperon de paperoni o il gran sultano in persona ma lui penserà sempre, dentro di sé, di esser meglio di te.
Ed è vero che rischiano la morte, eh, non lasciatevi fuorviare dalle statistiche che dimostrano qui, dimostrano là e stabiliscono che. Non è vero. Non ci sono cazzi. Si salta da 400 metri, con una fune di vincolo che apre il paracadute automaticamente, quello dietro, e la mano destra appoggiata alla maniglia del paracadute d'emergenza, sul davanti, nel caso il primo si apra male o non si apra affatto. Ma se questo succede, sei morto. Due volte su tre, tre volte su quattro. Anzi, secondo me, nove su dieci.
Quattrocento metri sono niente, cinque, sei sette secondi d'accelerazione e quando questa è finita sei già a terra. Anzi, in un bel buco per terra. Se ti va bene, se no è peggio. Puoi atterrare così male, per esempio sopra un albero, un lampione, sui fili della corrente o che altro ne so, e farti così male che preferiresti esser morto. Se sei scentrato dalla zona di lancio, per esempio, non puoi fare niente. Il paracadute è tondo e la direzionalità limitatissima. Sei semplicemente nei guai. E non è che da quattrocento metri non si possa mancare la zona, peraltro lunga un chilometro o più: è capitato anche a me quando il primo della mia fila s’impuntò e non volle più saltare. Il tempo di tirarlo da parte e liberarlo dal vincolo e, quando siamo saltati noi, eravamo giù sull'autostrada. Io appena fuori ma già oltre la recinzione, quelli dopo di me in piena carreggiata. Non è successo niente, parte della gente era ferma per godersi lo spettacolo ed altri procedevano a bassa velocità, ma non è stato piacevole lo stesso.
E non è stata l'unica volta in cui ho rischiato la pelle: al terzo lancio di brevetto militare, quello col contenitore C appeso sotto come una mortadella di trenta chili, sono finito a lato della zona di lancio in mezzo a un frutteto di mele, tirando giù un ramo grosso come un braccio e ritrovandomelo sotto il sedere senza farmi niente. Ma un metro più in là c'era il tronco, e, sempre lì attorno, altre centinaia e centinaia di tronchi, e poteva andare ben diversamente. Insomma si rischia la vita davvero. E il parà lo sa. E questo fa la differenza. Una differenza che a me non è mai piaciuta. Tuttavia, quel giorno ormai lontano, tornando verso casa in macchina con gli altri due, io dissi: «ricomincio a saltare». E cominciò la passione vera.
Si, d'accordo, i parà sono gradassi, forse anche un po' stronzetti, ma a me che m'importava? Anzi, un motivo in più, per dimostrare che non proprio tutti lo erano. Non che io non fossi vanesio eh, lo ero e lo sono, eccome, ma non mi piace dare spettacolo delle mie passioni. L'ho già detto, non sono un esibizionista.
Primo, non m'è mai importato niente di diventare "troppo" bravo, né m'importa tuttora. Secondo: fisico, età e malizia erano già allora al di là di ogni tentazione. Faccio del mio meglio per non ingrassare, ma sono comunque quasi sempre 5-10 anche 15 kg oltre il mio peso forma, e non c'è verso, ormai l'ho capito. Tuttavia non sono poi così male e soprattutto non demordo. Solo che, una volta deciso ... non sapevo da dove incominciare. O, meglio, da dove ricominciare. Quando sei fuori da un'attività o da un giro, infatti, è come se quel giro, per te, non esistesse. Non c'è, non lo vedi, forse proprio perché non t'interessa. Un'attività come quella, poi, di per sé già naturalmente elitaria e pure costosa, peggio ancora! Ma io sono di Verona, e a Verona, pur piccola e ruvida, non manca niente. Men che mai un aeroporto civile con un rinomatissimo centro di paracadutismo (e volo a vela). Tra l'altro pure con un nome bellissimo: Boscomantico. Come si fa a resistere a un nome così?
Solo che sembrava il posto più dimenticato del mondo, in quel febbraio 1996 di cui sto narrando. Oggi molto meno, ma allora, se ci andavi negli orari di chiusura, sembrava addirittura abbandonato. C'era una casupola di legno con imposte sempre chiuse vicino ad un capannoncino con su scritto "Scuola Veronese di Paracadutismo", così, con tre maiuscole, sopra un cartello arrugginito. Poco altro. Oltre le reti, gli hangar dell'aeroporto militare, ormai dismesso da molto, dall'altra parte gli hangar di quello civile, con bar ristorante annesso, anche quello quasi sempre chiuso.
Il fatto è che ci passavo nelle ore sbagliate, durante i giorni di lavoro, quando riuscivo a inserirlo in uno dei miei complicati giri di visite e ispezioni. Ed ogni volta mi sembrava un presagio dissuasivo. Un po' come se il centro, chiuso e abbandonato mi dicesse: «Lascia stare, di cosa vai in cerca? Il passato è passato». Al che mi rispondevo, parlando tra me e me «Già, e tra l’altro sono anche sposato, per la seconda volta tra l'altro, ed ho un figlio piccolo, un'altra figlia "di primo letto" (che però vive con me e di me ha bisogno) e un lavoro che più in bilico di così non si può ... mi serviranno mica altre menate, no?» Infatti alla fine entrai. Nel bar, nel centro e nel paracadutismo, quello vero, civile e sportivo, che è sempre pericoloso, vero, ma molto più divertente e meglio organizzato. Quasi in sicurezza direi, se non fosse che l'incidente è sempre comunque in agguato, quasi sempre figlio di un eccessivo azzardo, e più frequente di quel che son disposti ad ammettere i responsabili dei vari centri.
Ricominciai da zero, col metodo vecchia scuola, come un vecchio parà militare poteva e doveva fare. Niente lanci in tandem per me, che c’erano anche allora, né corsi accelerati AFF (accelerate free fall) con due Jump master che si lanciano con te accompagnandoti in discesa libera come un pupazzo del Muppet Show, ma corso teorico e tutta la vecchia trafila: lanci vincolati, poi apertura comandata e infine, gradualmente e adrenalinicamente, la tanto agognata e temuta discesa libera. Ritrovai così una mia vecchia amica: la paura.

Contrariamente a quello che si pensa, infatti, il paracadutista, almeno quello che non è anormale o super esperto, vive di paura. O meglio, dell'adrenalina che accumula e scarica durante il lancio. E della soddisfazione, o gioia pura, che ne deriva. Avete presente la quiete dopo la tempesta? Moltiplicatela per cento, per mille e avrete l'idea! Chi non ha paura mente o non è normale. E allora, in ogni caso, è pericoloso. Non dura e non fa durare gli altri. La paura è indispensabile, perché, anche dopo centinaia di lanci, ti fa fare le cose per bene, sia nei ripiegamenti che nei controlli, che col tempo diventano sempre più automatici e noiosi, e infine nell'esecuzione dei lanci veri  e propri. Poi, col tempo, scema, sostituita dalla preoccupazione e infine dalla concentrazione, ma non deve mai mancare del tutto, perché, una volta saltati dall'aereo, ciò che è fatto è fatto. E qualsiasi errore si paga caro, molto caro.

Io ho avuto paura almeno fino ai trenta, quaranta, cinquanta lanci. E in crescere, mica in calare, perché più si va avanti e più ci si rende conto di quante cose potrebbero effettivamente andare male senza che ci sia più la molla dell’orgoglio a spingerci come prima. Anzi, più si va avanti e più scema la visione avventurosa e romantica dei primi lanci, per lasciare il posto ad una più tecnica e disincantata la quale acuisce, e di molto, la percezione dei punti critici e dei veri pericoli. Che per altro costituiscono l’essenza di questo sport. In pratica, prima si ha paura di sbagliare l'uscita e aggrovigliarsi nella fune di vincolo, poi, quando la fune non c'è più, si ha paura di non trovar subito la maniglia e perdere la posizione, col rischio di aprire magari all’incontrario o a testa in giù. Infine, quando ormai è digerita la paura dell’apertura comandata, perché bisogna imparare a non aprire. E la paura, a quel punto, è ancora più forte.
Ricapitolo per i meno esperti. Porta aperta, seduti a gambe fuori, mano interna che spinge e subito va a prender l’aria per evitare torsioni sull’asse, e, appena dopo, il movimento sincrono che permette l’apertura del paracadute senza che avvengano torsioni, sempre sull’asse: mano destra alla maniglia mentre la sinistra rientra a bilanciare l’aria (si viaggia comunque a più di cento all’ora). E una volta tirata la maniglia, senza mollarla, si attende un secondo o due e poi, dopo lo shock d’apertura, si controlla che tutto sia a posto, e finalmente si respira! Ci si ritrova attaccati a quattro bretelle (e due soli cosciali) a mille metri da terra, millecinque per i non esperti, ma almeno si respira!
Ma se vuoi far la discesa libera non devi aprire! Il che vuol dire innanzitutto che, dopo, l’apertura, la dovrai fare a duecento all’ora invece che ai cento – centoventi, e che la terra sarà molto, molto più vicina. E cominci a pensare “e se non riesco a tener la posizione?” “e se non riesco a trovare la maniglia?”. In fin dei conti, finché uno non l’ha fatta, mica lo sa che cos’è la discesa libera! Uno sa solo che, se mette fuori una mano dal finestrino di un’auto che viaggia a duecento allora, il vento gliela porta via. E quindi … quindi non gli rimane che farsi forza e pensare che se anche gli altri ce l’hanno fatta vuol dire che anche lui ce la può fare. E però subito dopo pensa “si va beh, però ai duecento all’ora sai che botto quando arrivo a terra?” Quindi non è del tutto semplice saltare e impedire alla mano di andare ad aprire. Anzi, da più tempo si fa l’apertura comandata immediata e peggio è.
Oggi si prende un tranquillante, ci si attacca ai moschettoni di un istruttore e via, di colpo in caduta libera per un minuto intero. Così, senza aver mai fatto niente prima. Basta un certificato medico e duecento euro (con altri trenta ti fanno anche le foto e il video) e uno sa già tutto. Non impara un cavolo, d'accordo, ma intanto sa cos'è la caduta libera. Io allora non lo sapevo. E per impararlo ho rischiato del mio. Come tutti quelli prima di me. Come tutti quelli che io chiamo parà veri.
Per ognuno di quei lanci, e in seguito pure, anche se sempre meno, io ho avuto paura. Paura di tutto, paura di qualsiasi cosa. Paura di me, degli altri, della sfiga. Ed è stato bello. Solo che non è durato.
L'apprendimento è infatti una cosa appagante. Ci sono momenti in cui direi che è il sale della vita. Se però sbagli e ce ne metti troppo viene una schifezza e rovini tutto. Se ho reso l'idea, bene, se no pensate pure alla trita e ritrita frase "fare il passo più lungo della gamba". Insomma, l’apprendimento deve essere graduale, senza mai farsi prendere dalla fretta d'imparare. Se però uno ha quasi quarant'anni e nuota in mezzo a pischelli di diciotto - venti la cosa diventa subito in salita. E questa era appunto la mia situazione. In realtà c’erano vantaggi (pochi) e svantaggi (tanti, troppi). L’unico vantaggio direi anzi che era la capacità raziocinante, che in realtà era anche un problema e non da poco, mentre gli svantaggi erano tutti gli altri: dai tempi di reazione alla capacità d’apprendimento basata quasi tutta sull’istinto. L’istinto, se non lo fai da giovane non lo fai più, oppure ti serve il quintuplo del tempo e non riesce bene uguale. Altrimenti non si chiamerebbe istinto.
Eppure ce l’ho fatta lo stesso, alla tenera età di trentotto anni. No, non a completare il percorso d’addestramento, ma ad andare ben oltre, anche oltre la semplice attività amatoriale di base. Quasi all’attività dimostrativa ed agonistica. E al volo relativo in grandi gruppi. Come? Ma è chiaro, dandoci dentro come un matto e usando l’asso nella manica che i pischelli in genere non potevano avere: una disponibilità finanziaria di un certo livello. Il primo anno feci infatti centoventi lanci. Il che, contando i fine settimana di cattivo tempo e quelli in cui ero impegnato altrove, fanno una media mica da ridere. E una spesa altrettanto importante. Credo che fra lanci, paracadute, tute e ammennicoli vari avrò speso dieci o dodici milioni di lire dell’epoca. Forse otto o dieci mila euro di oggi.
Ed ero sempre col naso a pelo d'acqua. Tentavo cose che erano sempre al mio limite e anche oltre. Ricevetti anche delle lavate di capo imbarazzanti dai responsabili del centro, ma feci, come si diceva allora,  una progressione spettacolare. Alla fine del primo anno ero già inserito in una formazione che saltava a quattro, unico nel mio corso, ma quel che ho rischiato lo so solo io. E lo dico solo adesso.
Non mi bastava mai. Non volevo rimanere indietro a nessun costo. Imparai a "fare il punto" ancora prima d'arrivare al volo relativo, tanto per fare un esempio. Fare il punto, nell'epoca precedente il "gps", voleva dire stare inginocchiati alla porta, guardare giù e dare indicazioni al pilota per raggiungere il punto adatto per saltare. Sembra facile, ma non lo è, perché intanto il punto non è in verticale, ma in genere più avanti o più indietro o anche laterale, a seconda del vento che c’è a terra ed in quota. E poi  l'aereo non è in orizzontale, ma in salita, quindi non perpendicolare. Insomma, una cosuccia che richiedeva una certa esperienza e in genere fatta da un istruttore o da un jump master, perché saltare fuori zona vuol dire guai sicuri, specialmente se a bordo hai allievi anziché esperti. Ecco, magari in questo sono stato favorito dall’età, ma nella discesa libera assolutamente no.
Nella discesa libera il segreto è il rilassamento, oltre che nella posizione, e qui cominciavano i miei guai. Più ragioni, infatti, e peggio è. Se sei teso ondeggi, sbatacchi, ti sposti da tutte le parti, e volare in relativo è impossibile. D’altra parte, essere rilassati mentre si viaggia a duecento all’ora verso un impatto con la dura terra, non è proprio facilissimo. Bisogna dimenticare quel che si sta facendo e concentrarsi sul modo e sui particolari. E in questo la giovane età aiuta molto. Mi ci volle perciò molta più pazienza e applicazione, ma poi le soddisfazioni non mancarono.
Un problema non indifferente furono invece le mie fluttuazioni di peso, che influivano pesantemente sul mio rateo di discesa. Ma anche qui usai lo stesso sistema: comprai due tute, una lenta e una veloce e infine una con una specie di sistema ad ali di pipistrello che mi permetteva addirittura di cambiare rateo in volo. Insomma, non mi feci mancare niente e niente trascurai, con notevoli progressi e memorabili soddisfazioni, almeno fino a che durò la progressione.
Quando invece i lanci diventarono routine, con sedute di preparazione lunghe e noiose (bisognava infatti studiare a terra, su speciali carrelli, a pancia in giù, tutti i movimenti e le figure che si sarebbero poi fatte in volo, poiché bastava un solo errore di qualcuno e tutto il lancio andava "buttato via") sedute che comportavano ripetizioni su ripetizioni e che a me facevano solo venire il sangue al naso, cominciai a manifestare i primi segni di insofferenza.
Non era più divertimento, a quel punto, ma un meccanismo che doveva girare a perfezione e basta. E io la rotella dell’ingranaggio facevo fatica a farla, allora come sempre. Mi sforzavo certo, e molto anche, ma mi sentivo in gabbia. Quando poi qualcuno sbagliava qualcosa, apriti cielo, musi lunghi, sguardi torvi e insofferenza a mille! E in effetti un bel po’ di ragione c’era: un lancio a nove costava trecentosessantamila lire e anche due o tre ore di tempo, e bastava l’errore di uno solo a mandare a monte tutto.
Decisi che non faceva per me e cercai altre strade. Saltai a due, a tre, a quattro al massimo oppure da solo in stile libero, strade che durarono quel che durarono senza mai farmi impazzire, ma la verità era che, come in tutte i giochi del mondo, se c'erano amici simpatici ci si divertiva, altrimenti no.
L'aereo, le nuvole, il cielo, la bellezza dei panorami, le vertigini dei primi lanci, quando ti ritrovavi appeso a millecinquecento metri d'altezza, non c'erano più. Restavano le attese infinite, i ripiegamenti noiosi e le incomprensioni coi responsabili del centro. Nascevano invidie e gelosie tra noi e si faceva sentire la noia di andare, alla fine dei conti, a fare sempre la stessa cosa, nello stesso posto e nello stesso modo.
Evadevamo ogni volta che potevamo: Ravenna, Montagnana, Campodipietra, Legnago, Brescia, Bolzano e perfino un paio di manifestazioni di paese, dove tra l'altro non mi piaceva molto andare per via dei pericoli e della gente, ma alla fine sempre lì si tornava. Sempre la stessa cosa si faceva con sempre meno gusto e soddisfazione. E cominciai a capire che, forse, non era il mio genere. Tentai col volo relativo a vela aperta, tentai coi video accompagnando i tandem, ma ormai era tardi: la noia era più della gioia. Quando mi accorsi, mentre ero nella pancia di un "Casa", un bimotore stranissimo che pare una scatola di biscotti con le ali (da dove saltavamo per un lancio relativo a sedici), mi accorsi, dicevo, che avevo dimenticato le figure perché pensavo ai miei problemi di lavoro, capii che non sarei durato.
Ebbi anche un'emergenza, dovuta, lo confesso, a un'apertura mentre ero ancora in fase di deriva, cioè senza previo rallentamento, e anche, probabilmente, allo slider (rallentatore d’apertura) lasciato in basso durante il ripiegamento. Errori di distrazione entrambi. Il risultato fu un botto micidiale, con sbrego della vela principale e trancio netto delle due bretelle di sinistra. Risultato: calotta a fiamma, sgancio ed apertura della vela d'emergenza. Non ebbi paura e feci tutto come da manuale, compreso l'atterraggio nell'area piccola vicino all’hangar, che mi procurò un inaspettato rimbrotto da parte dei responsabili del centro. E ci rimisi la vela rivelatasi in aggiustabile. Ma il fatto più grave era che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare assolutamente nulla dell’ultimo ripiegamento, quello incriminato. Mi accorsi allora che, in effetti, era un periodo in cui ero svogliato e indolente, e lo ero anche durante i ripiegamenti. Ero sceso sotto il livello di sicurezza.
Così cominciai a saltare sempre più di rado e sempre più da solo, nonostante la vela nuova che mi dava belle soddisfazioni, ma ormai non più sufficienti. Non c’era più l’adrenalina e neanche la magia conseguente. Inoltre i responsabili del centro mi diventavano sempre più antipatici e forse la cosa era reciproca. Vendetti l'attrezzatura e ci comprai la moto: erano trascorsi sei anni e quattrocentosettanta lanci.
Andò come va sempre: perduta l’abitudine mi ritornò la voglia e per qualche anno soffrii quasi d’astinenza. Ma quando una porta è chiusa è chiusa, e riaprirla è solo una minestra riscaldata, per cui non recedetti. A momenti, quando prendevo l’aereo per lavoro, avrei dato chissà cosa per poter riavere un paracadute e saltare fuori in mezzo a quelle nuvole che conoscevo così bene. Anche perché, di tutti quegli anni di attività, mi è rimasta l’avversione, e forse la paura, per una delle due fasi veramente pericolose del volo in aereo: l’atterraggio. L’altra è la partenza, di cui però non si può fare a meno, ma l’atterraggio era quella che avevo sempre evitato. Mai una sola volta ci avevo atterrato, una volta partito. E per tutti gli altri guai che possono succedere in volo c’era sempre il paracadute.
Ad oggi sono circa dieci anni che smesso e non me ne pento. Certo, ogni volta che vedo il cartello con su scritto “Boscomantico”, punto gli occhi al cielo in cerca delle vele. E la domenica mattina, dal cortile di casa mia, sento perfettamente il Pilatus del centro che porta in cielo i miei vecchi amici. Ma io non soffro più: «Addio amici miei, e buoni lanci a voi!»
 

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