Scritto da © max pagani - Gio, 21/07/2011 - 15:05
Chiara
Era chiaro che fosse Chiara, non poteva essere altrimenti. Anche lei come quel romano, era Chiara di nome e di fatto. Ma non di mestiere. Il mestiere era buio sporco e appiccicoso.
Era Chiara nel vestire, nel porsi, nell’esporsi, quando sorrideva o lacrimava. Talmente Chiara da abbagliare e spesso, non a caso, lui portava sempre occhiali da sole.
Chiaramente sognava, come tutti e tutte, ma difficilmente teneva i sogni per se, non li conteneva e se li perdeva per strada, li trasudava dai pori, era talmente Chiara che gli si leggevano addosso, fin quasi dentro.
Lui.
Lui non era chiaro, decisamente no. Tendeva all’oscuro, ermetico e impenetrabile. Una specie di Michael Jackson dei poveri, ma pesante quasi cento chili. Parte dei cento chili erano composti da capezze imbarazzanti, uno stuolo si bracciali d’oro di ogni tonalità e un Panerai di dimensioni al limite dell’indossabile. Maicol Gecson, si firmava con la Montblanc, quando voleva atteggiarsi, e nessuno capiva se ci fosse o ci facesse.
Per molti, ci fosse.
I profumi di Chiara lasciavano una scia di buono, i vestiti, gli oggetti ed ogni cosa da lei toccata o pensata sapeva di buono, anche le scarpe. Ma era trasparente, troppo trasparente per poter sopravvivere a San Basilio, per riuscire a non rimanere infangata nei fumi neri della Tiburtina, e non incrociare lo sguardo ammiccante di camionisti olandesi in canotta sudata.
Tra i riverberi cangianti di Chiara si intravedeva tutto, contusioni, lividi e un paio di costole rotte che si stavano risaldando in qualche modo. Gli guardavi attraverso e piccoli punti di sutura se ne stavano al calduccio nell’interno coscia, liquido seminale se ne stava un po’ ovunque, camminava per la sua strada. Chiara era un trionfo di coesione e miscellanea di delicatezza, fragilità, e purezza, per quanto quasi sembra essere fuori luogo il termine purezza nel descrivere una prostituta.
Lui ovvio, la chiamava Puttana, calcando sulle due t come volesse farglielo capire bene. Il problema era che Lui cominciava a stancarsi di Lei.
Nell’usarla ormai non provava quasi più nulla, ingressi in parte troppo elastici e provati, lei che non partecipava e lasciava fare, e schifo nel baciarla che sapeva sempre di lacrime salate. Lu si stava stufando, e si stavano cominciando a lamentare anche i clienti più affezionati.
«A Maicol !! Ieri m’è sembrato de scopà co na medusa!!! Vedi mpò che poi fa…»
I camionisti olandesi lui non li capiva invece, ma c’era ormai poco da capire. Non si fermavano o non la volevano.
Chiara non decise di morire. Come scrisse un tipo più volte, per morire ci vuole coraggio, non solo disperazione. La disperazione è il trampolino che percorri ogni giorno, il coraggio è la spinta nel vuoto irrazionale che spesso non arriva.
Il coraggio a Chiara glielo avevano strappato via in piccoli pezzi ad ogni dose di eroina, la disperazione inoculata ad ogni dose di pestaggio.
Quando lui entrò nella stanza buia per strapparla via dal letto, non la trovò più. Trovò un letto caldo, ancora sfatto e profumato di buono, aveva ancora la sua forma e sembrava si muovesse gonfiandosi, come se qualcuno lo avesse abbandonato in quell’istante.
Qualcuna, nel caso specifico.
Tutto in quella stanza era pregno di lei. Lui sentì chiudere la porta alle sue spalle, si girò di scatto riaprendola e guardando giù dalle scale e non vide nulla. O quasi. Vide l’aria in movimento, il vuoto tremolante fare spazio a materia inconsistente. Richiuse la porta e bestemmiò in modo pesante, la trasparenza in movimento, per il Maicol Gecson di San Basilio, era troppo complicata da capire.
Concluse che la puttana se ne era andata, e che andasse pure a farsi fottere (un altro po’..) e l’avrebbe sostituita a breve. Se l’avesse ritrovata, l’avrebbe sistemata a dovere, anche se in fin dei conti della cosa ora gli importava solo lateralmente, perchè lui aveva messo gli occhi su una nigeriana strepitosa.
Chiara non morì.
Riuscì solo a sprofondare totalmente e così intensamente nella sua disperazione che questo le permise di completare la sua magia, e diventare una specie di ameba trasparente. Una protomedusa quasi invisibile, potevi notare solo l’aria che si muoveva ed a volte piccoli lampi di luce. Lei, Chiara, con i suoi arti che diventavano lunghi filamenti e, come delicati pseudopodi, tendevano a carezzare ed assorbire le tristezze e atrocità interiori dei passanti inscatolati, su quella cazzo di strada in cui nulla sa di buono.
La Tiburtina ora ha una puttana in meno, ma molti nuovi chilometri di magia.
Perché forse così era scritto, ed era chiaro che fosse Chiara.
FINE
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