Oggi leggevo, su di un quotidiano di Torino, un reportage di Roberto Giovannini titolato “Ai piedi della diga che divora la foresta - Addio Amazzonia” . Leggevo di un esercito di manovali, 32 mila, che dalla diga di Tucurui, ormai finita, sono stati ora spostati a quella di Altamira, in costruzione. Leggevo dei progetti, mega progetti, idroelettrici del Brasile che stanno distruggendo quel polmone vitale, stanno assediando e togliendo spazio agli indios, suoi abitanti.
E mi è presa una tristezza, ma una tristezza nel pensare che nel nome del “progresso” l'uomo stia distruggendo sé stesso senza accorgersene, l'uomo comune intendo, quello che fatica a sbarcare il lunario, quello come me e voi, quello disoccupato, precario, instabile nella propria esistenza ed in quella dei propri figli non le grandi compagnie, i grandi affari, quelli dell'accordo di Kyoto voglio dire: colui che pensa a far riprendere la “crescita” perché la crescita è il suo credo, il credo che lo domina come un perenne Leviatano del regno delle tenebre, dicevo mi è presa una tale tristezza esistenziale che ho cercato se in qualche libro, in qualche poesia, fosse possibile trovare qualcosa che vi assomigliasse e me ne desse un immediato riscontro.
Penso di averlo trovato nei Meriggi e Ombre di Montale: Casa sul mare, che vi invito a leggere, perché, come si dice, nella disperazione mal comune mezzo gaudio.
Svegliamoci!
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono uguali e fissi
Come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
Che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
La marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
Nella bonaccia muta
Tra l’isole dell’aria migrabonde
La Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
In questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.
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