Scritto da © Carlo Gabbi - Mar, 10/03/2015 - 09:55
Terza parte… La storia continua…
Conoscendo abbastanza bene, attraverso le memorie di mia madre, di quanto fosse fiero il carattere del mio bisnonno Francesco, devo presumere che fu penosa per lui, la situazione in cui si trovava e ancor più era acerbato perché sentiva di essere indirettamente responsabile di tale rovina finanziaria, nell’aver nominato Otto come giovane direttore della ditta Tullio.
Era uomo di poche parole e l’arrivo alla porta di casa in quello stato pietoso, cencioso, incolto nell’aspetto della sua persona, sfinito dalla stanchezza fisica e in più preso dalla preoccupazione mentale del come poter ripagare al più presto quel debito d’onore promesso ai suoi onesti lavoratori. Quelli erano per lui pesanti obblighi, la perdita della sua fortuna economica racimolata in una vita di lavoro. Fu durante il mese, sulla strada del ritorno, che questi pensieri nel solitario cammino avevano gravato nel profondo del suo intimo ancor più di tutte le privazioni fisiche.
Tutte queste continue preoccupazioni avevano senza dubbio influito, tanto che all’arrivo, presentarono a Maria, sua moglie, una visione penosa del suo uomo.
La notizia della sua sfortunata situazione si era ormai venuta a risapere a Nimis, da alcuni giorni, sin dall’arrivo del primo gruppo di operai giunto dalla Transilvania. Maria era quindi a conoscenza dei fatti basilari, senza conoscere ancora i dettagli della reale posizione di Francesco.
Fu unicamente al trovarsi di fronte al marito in quelle condizioni pietose, che non occorsero spiegazioni, la sua visione era un quadro completo per realizzare la gravità dei fatti. Era impietosita verso lui per le sue vicissitudini e non occorse altro per capire la gravità della situazione e divenne pensierosa pensando a quali gravose future ripercussioni finanziarie la famiglia avrebbe sofferto. Sin dal giorno del suo matrimonio sia lei e per i figli poi, avevano vissuto negli agi, e così pure, quelli alla loro dipendenza, nei lavori agricoli e casalinghi, che avevano vissuto con la garanzia per il loro benessere anche se pur modesta per i loro famigliari.
Francesco, si trovava completamente stremato dalla stanchezza, e non oppose alcuna resistenza a quell’aiuto insolito offertole da Maria, che era diverso dall’usuale, spinta da un dolce amore quasi materno.
Si lasciò condurre da lei, che lo sorreggeva per mano, entro la larga sala, dove Maria lo accomodò per bene su un’alta sedia, in fronte al tepore che scaturiva dal fuoco ormai acceso nel caratteristico “Fogolar Furlan”
Francesco, alzò leggermente gli occhi verso lei e con quel lieve movimento dello sguardo la ringraziò, poi allungò le mani intirizzite per riscaldarle dalle fiamme che scoppiettavano dal grosso ceppo ardente, il quale bruciando lanciava gracchianti suoni, rompendosi in mille faville incandescenti, che poi salivano entro la larga nappa, convogliando i fumi al camino.
Maria era di ritorno dalla cucina vicina, dove aveva scodellato una larga tazza di brodo ben caldo e lo incoraggiò:
“Sorseggia questo, Francesco. Ti rifocillerà. Nel frattempo vado a prepararti un buon bagno caldo, vedrai che quello ti aiuterà a ripristinare le forze perdute nel lungo viaggio.”
Maria le fu vicino aiutandolo nelle minute cure personali, sicché il suo Francesco potesse ripristinare le usuali vestigie di decente gentiluomo, come lei ben sempre lo aveva visto nel passato. Mentre erano in bagno, Maria lo assettò per bene con un buon taglio ai lunghi capelli, riassettando pure la barba incolta, e, in ricordo del passato, con buon umore ora, diede una buona aggiustata a quei suoi grandi baffoni, che con il passar del tempo aveva incominciato ad accettare. Alla fine cercò per lui un buon abito, comodo e caldo, e sistemò per lui una buona poltrona nelle vicinanze del fogolar, dove potesse riposare tranquillamente da tutte le sue fatiche.
~*~
Fin dal giorno successivo al suo arrivo, Francesco incominciò a preparare le cose necessarie per richiedere un prestito bancario.
Come prima cosa chiamò il notaio locale, suo amico sin dal tempo di scuola e suo legale in Nimis, il quale custodiva tutti i titoli inerenti alle sue proprietà.
Assieme fecero una lista degli appezzamenti di terreno che Francesco aveva acquistato durante gli ultimi venticinque anni di lavoro nel regno Austro-Ungarico e aggiunto alle sue valutabili proprietà in Nimis. Assieme discussero quale valore in denaro ciascun blocco terriero potesse ritornare, valutandone la capacità produttiva. Il notaio prendeva nota di tutto ciò nel frattempo discuteva con Francesco l’appezzamento di terreno. (Francesco, sebbene fosse assente dal Friuli per la maggior parte dell’anno era pur sempre il miglior conoscitore della sua proprietà terriera.) Il notaio ricevette l’incarico di preparare un debito inventario, promettendo di presentarlo entro due giorni, che Francesco porterebbe con sé alla banca, assieme ai titoli immobiliari che avrebbe lasciato nelle mani del direttore bancario come garanzia del prestito desiderato.
Dalla lista delle proprietà in vendita, Francesco con una certa ragione formulò di tenere alcune proprietà per far fronte alle spese per l’andamento della casa patronale e colonica. Aveva escluso dalla vendita il podere adiacente alle case, padronale e colonica, includendo a questa la vigna, che aveva potere di guadagno con i suoi pregiati vini, e per rispetto verso la moglie Maria, tenne pure la vigna di Ramandul, in località Sevilis, che lei aveva portato in dote.
Escluse pure un’altra proprietà, forse di non grande valore monetario ma bensì sentimentale per i Tullio, e che Francesco aveva ereditato alla morte del padre Pietro. Rispetto agli altri questo era un piccolo podere ma su quella terra nel secolo scorso uno dei suoi antennati aveva costruito una cappella votiva, che era conosciuta nel circondario col nome di “La Madonne delle Planellis.” Negli anni passati Francesco, aveva fatto lavori di restauro e a quel tempo aveva apportato una addizione alla esistente costruzione, un capace porticato frontale sostenuti da archi e colonne in pietrame e sul soffitto aveva fatto dipingere da un artista locale, una rappresentazione inneggiante alle vestigia della sua famiglia. Era questo il luogo, che nel tardo autunno di ogni anno era celebrata una sagra paesana, e molti locali attendevano in quel giorno prima alla messa di ringraziamento per i buoni lavori stagionali. Seguiva poi sullo spiazzo in fronte alla cappella, la festa campestre con danze, buon vino, e cibo, festa che si protraeva sino al calar del sole.
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Quel lunedì mattina Francesco era partito di buonora con il suo calesse e in una larga borsa custodiva tutti i titoli delle proprietà da vendersi. Aveva con sé i documenti preparati dal notaio, ossia i titoli immobiliari per la garanzia al prestito, che sarebbe stato richiesto per la durata di due anni, al direttore della Banca Veneta, per una somma sufficiente a ripagare gli arretrati dovuti agli operai. Nella proposta presentata era la garanzia da parte del notaio, che sarebbe l’unico responsabile per la vendita delle terre, e che all’atto di vendita, il denaro, avrebbe ripagato parte del debito incorso con la banca friulana.
Occorsero due giorni per l’approvazione del prestito, e alla fine con sollievo di Francesco, poté finalizzare il pagamento dei suoi operai. Era un grande onere e responsabilità che Francesco si era preso, ma questo era parte di lui e della sua ben risaputa onestà che egli aveva sempre avuto negli affari e nella vita privata. Nonostante fosse incorso in un grosso debito, era lieto in cuor suo, poiché aveva bisogno di abili operai e con quelli, avrebbe la garanzia della continuità dei lavori e degli obblighi contrattuali da lui sottoscritti.
I lavori in Transilvania continuati sotto la sua direzione, sino alla fine del 1907, anno che avvenne un’altra grande sciagura famigliare. Quello fu l’anno in cui il figlio più giovane diciasettenne allora, Edoardo, fu ucciso mentre danzava assieme a una giovane donna locale. Fu per mano di un gitano, geloso della propria compagna, che ballava assieme all’intraprendente Edoardo. Fu il dolore per la perdita del figlio in quel lontano paese come pure le insistenze di Maria, a far decidere Francesco di ritirarsi dagli affari e restare in Nimis. Lasciò in quei giorni le redini dell’impresa famigliare nelle mani del figlio Toni, il suo secondogenito.
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Quelli che seguirono furono anni, o forse più, di dura austerità per la famiglia di Francesco. Divenne insensibile alle invocazioni di Maria e presentò ai figli, maschi o femmine, la tipica rigidezza in uso da parte del capofamiglia di allora. Sentenziò rigide regole, per tutti coloro nelle capacità di lavorare, dovevano accettare i suoi ordini perentori, eseguendoli senza obiezioni, obbedendo e rispettando la sua autorevole posizione di padre.
Erano quelle le conseguenze delle sfortune paterne dopo la grossa perdita di denaro, e l’obbligo degli appartenenti alla famiglia nell’aiutare il padre a ripagare i debiti contratti.
Così Francesco, agli inizi di quell’anno 1903, decretò il suo incondizionato volere a tutti che direttamente o indirettamente dipendevano da lui.
All’anziano e fidato fattore lasciò l’incarico di essere il suo factotum, responsabile dei lavori campestri e del benessere del bestiame. Dalle vendite dei latticini e altri prodotti agricoli, avrebbe trattenuto un piccolo ammonto in denari, ma il profitto sarebbe consegnato al notaio. Inoltre il fattore si sarebbe reso responsabile della buona cura delle case, padronale e servile, mentre la moglie avrebbe cura della crescita dei più giovani figli di Maria e Francesco che avrebbe cresciuto assieme ai suoi, sino al rientro della famiglia dalla Transilvania.
Gli altri figli, sopra i dieci anni, avrebbero seguito il padre in Transilvania, I figli maschi avrebbero lavorato come manovali sotto la supervisione di uno dei suoi capicantiere, mentre le donne, sotto il comando di Maria, avrebbero accudito al buon andamento delle cucine, come pure allo spaccio di ristoro degli operai a fine della giornata di lavoro, vendendo loro bevande e quelle piccole cose necessarie alla loro vita semplice.
Un carro leggero, che era usato nei lavori campestri, sotto la guida di Francesco, fu adattato per il lungo viaggio, ricoperto con archi in ferro e uno spesso telone impermeabile, copiando nel concetto i carri degli zingari, capace di dar riparo durante le intemperie lungo il viaggio, e di trasportare le cose personali, come pure usato come dormitorio delle ragazze. I maschi invece avrebbero dormito sotto il carro, protetti da un telo impermeabile. Durante il viaggio unicamente Maria aveva il privilegio di sedersi vicino a Francesco che ne era alla guida. Gli altri avrebbero marciato ai lati del carro. Francesco, per non stancare troppo i ragazzi aveva diminuito le lunghezze delle marce diurne.
Partirono in anticipo, la strada era lunga, e i ragazzi erano alla loro prima esperienza nell’affrontare tale lunga marcia. Francesco voleva arrivare al più presto in Transilvania per costruire una nuova baracca di legno che diverrebbe la nuova dimora per i prossimi due anni per tutta la sua famiglia.
Fu in quei giorni che mia nonna Gigia, che allora stava vivendo una vita privilegiata rispetto gli altri in Budapest, ricevette l’ordine paterno di raggiungere il resto della famiglia.
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Non aggiungo alcun mio commento riguardante la famiglia di Francesco, ma penso ugualmente, che queste mie note frettolose possano creare in voi lettori quale fosse il tenore di vita di quei giorni passati. Come avete compreso la loro vita poteva essere capovolta nottetempo, anche per coloro considerati più fortunati dalla sorte. I nostri avi usavano un pugno di ferro, sia negli affari come pure nell’ambito famigliare, sebbene in cuor loro fossero propensi nel donare benessere per tutti quelli che dipendevano. Forse il motto uno per tutti e tutti per uno, si addice bene per quei tempi e come presento in questa mia storia che sto` raccontando.
Forse tra queste righe esiste pure una morale nascosta e prego voi lettori di andare a rintracciarla. Ci pone comunque il dilemma di meditare su quei tempi passati, e di paragonare la vita di allora con la nostra attuale, e ancora invogliarvi, per chi ha le possibilità, di andare a rivangare nel vostro passato, quello della vostra famiglia. Vi invito di chiedere ai vostri nonni di sedersi durante le lunghe serate fredde, accanto a voi, e so che essi saranno ben lieti di raccontarvi brevi storie da loro vissute, che avranno il potere di far rivivere le loro poche gioie e i molti dolori e sofferenze di una vita passata. Sarà per voi una lezione di vita vissuta che vi insegnerà molto.
Mi propongo nel tempo a venire di portarvi con me lungo un cammino a voi sconosciuto che s’inerpica in un lungo secolo di storia, mai raccontato da me in prima persona. Verrete a conoscere in anteprima bagliori irrisori di felicità che finirono bruscamente con il rombo dei cannoni attraverso due lunghe ed esasperanti guerre mondiali, che lasciarono i nostri padri derelitti, perdendo figli e averi, e quei luoghi natii distrutti. Sebbene ciò, nei loro cuori pur sempre furono tenaci durante quegli ardui periodi e far sì che ritornassero speranze per un migliore futuro.
Oggi ci lamentiamo spesso della nostra vita e dei sacrifici che questa ci impone giorno dopo giorno. Vi dico ora che tutto è relativo. Dobbiamo avere pazienza e abbiamo il dovere di imparare dalla vita dei nostri avi, e dalle loro virtù di un continuo sacrificio, e del modo che sempre furono capaci di portar la barca famigliare nelle calme risacche in porti sicuri.
Con queste e parole, oggi termino il mio narrare, e a tutti voi, da questa mia nuova terra lontana, dalla quale pur sempre sento rimpianto e nostalgia per la nostra amata Italia, v’invio un abbraccio, miei cari fratelli italiani.
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