Scritto da © Carlo Gabbi - Mer, 05/08/2020 - 05:37
Part 2
Per la mia temeraria cavalcata nel Nord Australiano avevo bisogno innanzi tutto di un solido mezzo di trasporto, un fuori strada, avente quattro ruote motrici, che fosse capace di portarmi attraverso quelle piste, anche la più impervia che solcano l’interno del paese. Trovai quanto volevo a una svendita di mezzi militari. Era un rustico automezzo, ma rispondeva docilmente ai comandi. Lo sentii volenteroso e sottomesso alle più ardue fatiche alle quali lo sottoposi. Era un 4 ruote motrici, e sfoggiava ancora, pitturati sulle sue lamiere, quei caratteristici colori che usualmente sono usati nel camuffare questi mezzi militari. Lo trasformai con passione entro quel rustico, solido camper van, il quale sarebbe divenuto la mia casa nei prossimi lunghi mesi di vagabondaggio.
Così incominciai il mio viaggio senza meta, diretto verso Nord, entro quel OUTBACK, quel “Never Never Land” ossia quella terra di nessuno. Villaggi divennero sempre più remoti, piccoli, distanti, e ben presto trovai in fronte a me un entroterra desolato, che rispecchiava la vera faccia del continente Australiano.
Mi era stato detto che questa è una delle più desolate regioni esistenti, ma l’esser lì, solo mi sentii con strani sentimenti di gioia ed anche un po’ di ansia, nel vedere che quanto si offriva al mio sguardo era la vista di sabbie rosse, ondulanti, che formavano quell’immensità semidesertica che si spandeva a perdita d’occhio in fronte a me, unicamente rotti dalla vista di quei rari arbusti rinsecchiti dalla continua siccità`. Questo era dunque il vero volto del North Australia. La terra che corre ininterrotto da Broome, all’ovest del continente, e che in una cavalcata di oltre 4.000 Km. raggiunge il Gulf of Carpenteria nell’estremo Est, dove si alzano le ultime coste dell’East Queesland. Nel vedere questa terra sembrava più che mai che fosse stata abbandonata dall’umanità.
Infatti, in questa immensa regione vivono ben pochi gruppi di esseri umani che permanentemente abitano questa immensa desolazione. Sono gruppi di uomini, duri e provati, spersi su territori smisurati nella loro larghezza e troppo grandi per un così infimo numero di persone, le quali si trovano sbattute a centinaia di chilometri, l’un dall’altro. La loro vita è assicurata da quel provvidenziale pozzo artesiano per la necessaria acqua e in più hanno alcune baracche di lamiera ad indicare un esistente nucleo di vita. Qui è, dove vivono i “Jackeroos”, ossia i mandriani che accudiscono, ai centri di allevamenti di bovini, che sono chiamate Stazioni, e si estendono su territori vasti quanto può essere il territorio di una provincia Italiana.
In quelle solitudini la loro unica via di collegamento sono quelle poche piste marcate nella sabbia rossa, lasciate nel passato dalle rare e pesanti impronte di pneumatici, che ora a mala pena appaiano alla vista, nel continuo zigzagare tra sterpaglie ed erbe rinsecchite, al raro avventuriero che ha l’ardire di attraversare questo mondo ignoto.
Tutt’oggi questa è ancora terra di pionieri e di temerari, i quali si avventurano nel cercare di emulare quelli che per primi, centocinquant’anni fa, hanno tracciato una pista, attraversando il continente, nella ricerca delle sponde opposte all’oceano da dove erano partiti. Non sapevano esattamente, dove fosse, ma credevano che esistesse. Molti di quei primi temerari persero la loro vita, nel loro ardire nella loro temeraria attraversata di luoghi sconosciuti e desertici. Oggi siamo grati a loro, che per primi ci indicarono la via e così altri avventurieri arrivarono dopo per dar inizio alla futura civilizzazione.
Oggi comprendo quanto temerario fui nell’attraversare questi luoghi rimasti immutati attraverso i due secoli di colonizzazione di questo continente. E terra selvaggia, è terra dove solo l’aborigeno locale sa come si può vivere, perché questa è la loro terra atavica, è il loro habitat naturale, e possono sopravvivere perché hanno imparato dai loro padri.
Ma, in quei momenti difficili della mia vita, non trovai disconforto nell’essere lontano da quelle ansie che si creano tra i rumori della nostra civiltà. Questa vita mi si addiceva in quei momenti di sconforto e mi sentii affascinato dai luoghi così imponenti, e apprezzai subito il valore della solitudine del luogo. Mi avventurai luogo piste, che compresi, era stato tracciato dai piedi callosi dell’aborigeno. Vissi e vagai all’intorno a quel luogo per alcuni mesi. Ero affascinato e nello stato di trance in quella falsa quiete e solitudine. Ero indisturbato, ed era quello il modo migliore per indurmi alla contemplazione e meditazione.
Questo fu il luogo ideale per scoprire me stesso, era il luogo nel quale potevo analizzare il mio spirito, depurarlo dalle incertezze mentali che da lungo tempo mi torturavano. Pensai quello fosse il luogo e il modo migliore per curare gli affanni passati. Sapevo che solo meditazione e solitudine erano la medicina capace per ricondurmi al più presto entro la persona intuitiva che ero nel passato.
Ma ancor più in quella completa solitudine si affinarono in me gli istinti primordiali di sopravvivenza e mi sentivo sereno. Sentivo di essere in diretto contatto con il creato e capii quanto fosse semplice comunicare direttamente con Dio. Fu Lui ad indicarmi quella magnitudine e mi insegnava come poter scoprire i misteri nascosti tra quelle aride zolle ondulate. Era senz’altro un mondo sconosciuto e selvaggio e a volte appariva irreale. Qui vissi e imparai il valore dell’umiltà e fui grato per quanto mi circondava.
»
- Blog di Carlo Gabbi
- Login o registrati per inviare commenti
- 6752 letture