Scritto da © Franco Pucci - Mar, 11/01/2011 - 07:45
Non so se fossero le stesse, non credo. Anche queste marciavano ordinatamente incolonnate al ritmo e agli ordini di un istinto superiore che le guidava. Un frullio d’ali sparigliò la situazione e fu caos completo. La mente corse immediatamente a quella terrazza sul mare di tanti anni fa e il parallelo fu naturale, anche se la logistica affatto differente. Come allora stavo in panciolle, distratto nei miei pensieri, la su di un’amaca pericolosamente tesa tra il muro e il vuoto, qui sul levigato marmo di una panchina. Stesso mare, stesse vibrazioni. Comunque acqua salata in cui immergere le emozioni e conservarle così in una specie di salamoia, quasi un brodo primordiale.
Ma torniamo alle nostre formiche. Il ritmo ora era frenetico, era diventato una corsa affannosa alla ricerca di un riparo, di una protezione. Metà scomparve in una crepa alla base della panchina ove ero seduto, l’atra metà vagò ininterrottamente lungo il muretto che circonda la laguna e scomparve alla mia vista. Strano come la vita ti riproponga ciclicamente analogie, dejavu, emozioni e situazioni già vissute – pensai – mentre con la mente riandavo a quell’estate del ’65. Come allora, nonostante fossero passati ormai più di quarant’anni, mi ritrovavo a tu per tu con me stesso, alle prese con un consuntivo sicuramente più corposo, ma altrettanto denso di significato. Certo, allora il sole e il mare avevano effetti diversi sulla mia pelle, raccontavano desideri, speranze e utopie che sembravano possibili, se non proprio immediate. Ora tutto aveva un ritmo più calmo, indolente, compiaciuto, quasi consapevole di una saggezza inevitabile. Che noia.
Perché poi lo scorrere inevitabile, del tempo dovrebbe portare con sé saggezza da elargire a piene mani? E che me ne faccio di una saggezza acquisita quando ormai sei vicino al traguardo e vorresti invece tornare bambino e imbrogliartene di tutto e di tutti nell’allegria di una sana incoscienza? Non ero allegro evidentemente. D’altronde il tempo non aiutava e qui, sulla laguna, la nebbia e il grigio della giornata la facevano da padroni. Si stava facendo buio e il freddo, condito dall’inevitabile e caratteristica umidità del luogo, mandava avvisaglie perentorie. Mi alzai stancamente e lo sguardo colse, illuminato dalla luce giallastra del lampione che si stava accendendo, un piccolo importante particolare.
Sul grigio del marmo, la dove un attimo prima io sedevo scompostamente immerso nelle mie sempiterne divagazioni e lacerazioni d’animo, una formica dimentica correva affannata alla ricerca dell’anfratto, della casa comune ove ripararsi e trascorrere la notte incipiente. Anche lei, come me, in ritardo. Perennemente in affanno, alla ricerca di quel traguardo che, quando credi di avere raggiunto, la vita beffardamente sposta in avanti. Fu a quel punto che un gatto randagio attraversò la strada. Come basito mi fermai ad osservarlo, ero certo di averlo già incontrato. Non so quanto tempo stetti così, appoggiato alla balaustra del ponte con lo sguardo inebetito. Poi sparì, come inghiottito dal buio di un portone. Di lui è rimasto un sorriso, una specie di ghigno ironico che m’insegue da ieri sera. Lo racconterò ad Alice, chissà se mi crederà.
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