Scritto da © Bruno Magnolfi - Lun, 18/02/2019 - 20:47
E’ tutto a posto, non c’è niente di strano. Sorrido, in questo bar dove vado sempre a trascorrere un’ora o due durante il pomeriggio. Mi diverto a parlare col tizio dietro al bancone, o con qualche frequentatore tra quelli che conosco. Poi però arriva questa ragazza, si vede che è in là con gli anni, che non è proprio una che fa tanto la difficile, così le pago un bicchierino, tanto per attaccare. Dice che ha un sacco di problemi, ma non ha proprio voglia di parlarne, così mi chiede se a me al contrario vada tutto bene. “Certo”, le dico, “non sono mica uno che si fa fregare da qualche contrattempo”, le fo. Lei ride, sorseggia il bicchierino e ride.
Dice che avrebbe dovuto andare in qualche posto senza specificare quale, ma non ne ha più avuto la voglia, e poi aggiunge che una persona, almeno in certe occasioni, si può anche ritenere, secondo lei, di sentirsi libera di fare ciò che vuole. Annuisco, però dentro di me si muove immediatamente l’obbligo contrario di andare più tardi al solito parcheggio dello stadio, a fare il turno di notte della sorveglianza, e questo già mi amareggia. Le dico che è brava se riesce ad essere così, ma lei mi guarda diritto in faccia: “tutti dobbiamo esserlo, se siamo delle persone”.
Le dico che abito a due passi, le chiedo di salire su da me, se ne ha voglia, e lei non dice niente, però prende la sua borsetta, e poi mi segue. Entriamo in casa, dico che in questo periodo non me la passo troppo bene, deve scusare la confusione che può notare in giro. “Non importa”, dice; “però avrei bisogno di un caffè, tanto per darmi una risvegliata”. Preparo tutto, e quando torno lei è mezza svestita, così mi do da fare anche se non perdo mai di vista l'orologio. Le cose scorrono veloci, e dopo un po’ mentre già ci stiamo fumando una sigaretta a mezzo, le dico con tristezza che dovrei andare. “Si, anche io” fa lei, e subito si ricompone.
Quando usciamo non ci diciamo niente, si fanno le scale di fretta fino al portone e dopo basta, ed al momento in cui siamo sulla strada lei dice “ciao”, semplicemente, e in questo modo se ne va, senza voltarsi. Vorrei quasi raggiungerla, dirle che ci siamo persino dimenticati di dirci i nostri nomi, forse potremo rivederci magari, che so, tirarci su il morale a vicenda qualche volta, ma poi penso al mio turno di notte nel parcheggio dello stadio, non posso certo fare tardi, adesso devo proprio andare, così mi dirigo verso la mia macchina, la apro e quindi metto subito in moto.
Intorno allo stadio di calcio non succede niente, avrei voglia di fuggire da qualsiasi altra parte, però mentre sto lì ad osservare la notte sotto ai lampioni fiochi, mi viene in mente che forse qualche volta potrei fare il mio turno di sorveglianza non proprio da solo dentro la mia macchina. Anche quella ragazza che ho conosciuto prima, magari avrebbe avuto voglia di stare con me ad osservare il niente di un posto come questo. Poi sorrido: nessuno con un po’ di senno verrebbe volentieri a trascorrere delle ore sul sedile di un’auto come faccio io; forse io stesso sbaglio a non mandare tutto all’aria e smetterla con questo mestiere privo di significato.
Poi metto in moto, e a fari spenti compio un lungo giro per tutto il bordo asfaltato di questa enorme piazza. Sembra non ci sia proprio nessuno in giro, così pigio di più sull’acceleratore, accendo all’improvviso i fari e me ne vado da lì lungo il viale che porta verso il centro. Non incontro nessuno, nessuno mi ha notato, adesso torno a casa penso, ma mentre mi fermo ad un semaforo mi giunge un messaggio sopra al cellulare. Sono i miei capi, mi chiedono perché io non sia sul mio posto di lavoro. Invento una scusa, poi torno indietro e mi piazzo dove sempre. Non c’è nulla che possa fare penso, se non starmene qui, come ogni notte.
Bruno Magnolfi
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