Malocchio | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Malocchio

“ Se qualcuno che ha l’anima malvagia pensa fortemente di nuocere altrui, lo desidera con violenza, ne ha l’intenzione certa e crede fermamente di potergli nuocere, non è da porre in dubbio che la natura non obbedisca ai pensieri della sua anima.”
                                                                                                        Ruggero Bacone
 
 
“Roma, 23 Aprile 1902
 
            Caro cugino,
ti scrivo questa mia lettera per farti sapere che da un po’ di tempo ho perduto l’uso delle gambe e sono seduta su una sedia a rotelle.
Sicuramente ti chiederai, dal momento che mi hai sempre visto in salute, cosa mi possa essere accaduto? Quale malattia abbia potuto sconquassare il mio corpo fino a ridurlo inerme su quest’aggeggio benedetto e maledetto? Ti chiederai come stanno mio padre e mia madre e come sta il mio fratellino Riccardo? Sarà bene, quindi, che io ti racconti tutto dall’inizio, di modo che tu venga a conoscenza dei fatti drammatici, inspiegabili e misteriosi che sono accaduti a me ed a tutta la mia famiglia nello scorso mese d’Agosto.
Proprio quest’anno ho terminato con pieno merito le scuole magistrali e sarebbe stata mia intenzione prendere subito l’abilitazione per accedere ai ruoli dell’insegnamento nella scuola primaria, così come ho sognato di fare fin da bambina. Come premio del titolo di studio conseguito, mio padre, abbandonando quella sua naturale avarizia che gli è valsa qui a Trastevere il nomignolo di “Sor Augusto er stipa”, decise di chiudere per un po’ la bottega di pizzicarolo e di portarci tutti quanti in vacanza affittando una casetta di proprietà di un suo cliente. Era poco più di una catapecchia di legno e mattoni che sorgeva appena fuori San Martino, sulla strada provinciale per Palmi, ai piedi del dossone della Melia che collega l’Aspromonte alla Serra, nel territorio sud-orientale di Gioia Tauro in Calabria.
Avresti dovuto vederla! La porta d’ingresso aveva le assi schiodate, c’erano vetri rotti alle finestre e il tetto sembrava aggrapparsi al comignolo del camino.  La casa (in tutto due camere ed un saloncino con angolo cottura) aveva uno spiazzo di terreno antistante ed era circondata da una palizzata. Da un lato, quello confinante con un’altra casa ancora più sgangherata della nostra, c’erano piantati due alberi di limone; dall’altro lato s’inerpicava lungo lo steccato un rovo di more selvatiche. Cominciai a capire perché mio padre ci aveva portati in vacanza: aveva pagato poco!  Comunque ci mettemmo di buona lena e in una sola giornata la rendemmo alquanto abitabile.
San Martino ha l’aspetto dei caratteristici borghi di campagna e sorge in una zona ricca di agrumi ed ulivi a 17 km dal mare. Io e mio fratello passeggiavamo per ore lungo la linea ferrata Calabro-Lucana o attraverso sterminati campi di ulivi, tra l’argento ed il verde delle foglie su fusti spesso contorti, nodosi e scavati. Se un campo di frumento trasmette una sensazione di agio e sicurezza per la certezza del futuro nutrimento, l’immagine dell’ulivo è piuttosto legata alla pace, alla longevità. Il suo fusto tormentato e le sue fronde essenziali mi rammentavano la lotta stessa per la sopravvivenza che non lascia mai spazio all’ozio. Tornavamo a casa stanchi, ma felici di aver quasi dialogato con la natura che ci circondava.
Ti ho scritto della catapecchia adiacente alla casa: anch’essa sembrava reggersi in piedi per misericordia divina; anch’essa aveva il tetto che, più che adagiato, era praticamente appeso tutto intorno alla canna fumaria del camino, nera come la notte. Sul fumaiolo gironzolava, in balia del vento, un galletto para-pioggia di ferro battuto tutto arrugginito. Anche questa casa aveva uno spazio antistante dove giacevano sparsi qua e là un carretto, una carriola, una catasta di legno, due o tre bagnarole. Era un orticello interamente circondato da una palizzata tanto malandata che appena si reggeva. Nella parte confinante con la nostra abitazione c’erano il casotto del cane e la gabbia delle galline. Dal lato opposto, una piccola baracca di legno era adibita a deposito per arnesi agricoli. Accanto ad essa, una porticina aperta nello steccato permetteva l’accesso ad uno spiazzo di terreno più ampio coltivato a verdure e pomodori.  Di traverso, lungo tutto l’orticello, un filo di ferro reggeva i panni che venivano messi ad asciugare.
Non starò a tediarti oltre circa la descrizione delle due stamberghe adiacenti, anche se devo dirti che essa ti sarà certamente utile per tutto quanto leggerai ancora in questa lettera. In particolare sottolineo il fatto che le due case, separate solo da un basso steccato, erano confinanti e che, proprio oltre la piccola palizzata, poggiata con un fianco su d’essa, c’era l’abituro del cane. Questo era un meticcio grande e grosso di pelo fulvo con una macchia bianca tra muso e collo. Una bestia feroce che non aveva nome e alla quale nessun movimento passava inosservato: al minimo rumore o alla minima mossa (se pur volava una foglia al vento), abbaiava come un ossesso digrignando minacciosamente i denti. Era un bastardone di montagna e come tale, quasi ogni notte o all’alba, lanciava ululi terribili, lunghi e strazianti che ci facevano saltare tutti dal letto.
Ma una particolare descrizione da parte mia e una maggiore attenzione da parte tua meritano certamente i nostri vicini, veri responsabili di tutte le disgrazie che ci sono capitate. Erano due coniugi di mezza età. Lui, Pasquale, era un omone grande e grosso affetto da una forte miopia che gli imponeva sempre un paio d’occhiali a doppio vetro fermati a forbice sul naso con una molletta che gli stringeva tanto il setto da farlo diventare paonazzo, così com’era quasi tutto il suo viso, dalle grandi gote ispide, con una bocca in parte sdentata e la fronte completamente scoperta dalla calvizie sempre nascosta da una coppola a quadroni grigi. Lei, Giuseppa, era una donna bassina e rotondetta, vestita sempre di nero, fronte bassa, capelli lunghi corvini arruffati e malcurati, tenuti su, da un lato della testa, con due piccoli fermagli di ferro,
Quando li vedemmo per la prima volta sembravano due persone estremamente gentili e cortesi. Erano fermi sulla soglia della loro porta e ci guardavano con ostentata curiosità.
- Saluti a vvui! – disse la donna - E che ghia? Che, don Paolino v’ave affittato la casa?…Si?…Faceve buono a viniri de qua unni ci sta l’aria pulita! Che fortuna che ‘nd’eppi! -
- E si magna de fresco e de qualità! – aggiunse il marito.
 – Bravi, bravi, benvenuti a vui! – disse, quasi inchinandosi, la donna con un ampio sorriso.
            Nei giorni che seguirono si dimostrarono sempre più cortesi e premurosi, pronti ad aiutarci in qualche lavoro in casa, a portarci salame e prosciutto locale, pomodori, zucchine, vino prodotto da loro stessi con l’uva di Taurianova (un centro più grande di San Martino dal quale dista 2 km.). Insomma si dimostrarono ospiti perfetti, a volte fin troppo invadenti e pieni di riguardi. Ebbi l’impressione che si trattasse di una sorta di sudditanza dovuta a quel complesso di inferiorità che i villici hanno sempre nutrito nei confronti di noi cittadini. Il progresso ed il tempo non avevano smarrito in loro quel certo senso di servitù glebale che ancora conservavano nella ristretta mentalità campagnola. Di contro, essi mostravano molto interesse per tutte le nostre cose. Grazie a mia madre che raccontava loro le vicende di famiglia, si erano praticamente intrufolati nella nostra vita privata, nella nostra casa, tra le nostre cose. Con lei Giuseppa entrò talmente in confidenza da cominciare a chiamarla “comare Aurelia”.
            Rimaneva estasiata di fronte ai capi di biancheria che lei le faceva vedere, mentre Pasquale restava ammirato quando mio padre tirava fuori la sua nuova precisissima “cipolla” che batteva le ore con il suono di un dolcissimo “carillon”.  Perfino alcuni giocattoli di Riccardo sembravano suscitare in loro grande interesse. I primi giorni della nostra vacanza trascorsero sereni e veloci tra partite di “Briscola” fra mio padre e Pasquale, di chiacchiere tra mia madre e Giuseppa, di passeggiate tra me e mio fratello fin su a Taurianova. E fu proprio lì che avvenne il primo episodio degno di nota. Ci trovavamo nel centro del paese che era da poco suonato mezzogiorno; Taurianova possiede beni culturali di notevole interesse: dalla chiesa di Santa Lucia a quella di San Pietro e Paolo nel centro storico della vecchia Radicena[1]. Proseguendo sulla via Principessa di Piemonte, giungemmo in piazza Vittorio Emanuele II, dove c’è il palazzo Contestabile risalente alla metà del secolo XIX. Proprio accanto al palazzo c’è un’altra costruzione più bassa, un po’ malandata, dove si apre una botteguccia d’antiquariato. Fui subito attirata dal particolare aspetto di certe maschere di terracotta che, insieme con altre cianfrusaglie, erano state esposte fuori. Erano enormemente brutte, con occhi nasi e bocche così grandi da apparire subito sproporzionati rispetto al resto del viso. Mentre ero lì, incantata ad osservare queste stranezze, dalla bottega uscì l’antiquario: un omino dai capelli lunghi e canuti che gli fluivano sulle spalle ingobbite, aveva il naso aquilino e due occhi che definirli piccoli non sarebbe appropriato: erano proprio due forellini socchiusi sotto folte ed ispide sopracciglia dal pelo dritto ed "ingrifato". Si avvicinò, guardò prima me, poi le maschere, e disse:
- Eh, si! Stanno lì, scure ed immobili, e svolgono in pieno il loro compito.-
- Il loro compito?- chiesi.
- Ci mettono al riparo dagli occhi cattivi - rispose, poi continuò: - Queste figure, allo stesso tempo tetre e tenere svolgono bene il loro compito. Esse vegliano, scrutano negli occhi di chi entra e ci perseverano dall’influenza nefasta del malocchio.-
- Il malocchio? -
- Già. Tutto ciò che un odio violento può ispirare ad alcuno ha la forza di muovere, di esercitare un effetto distruttore. Lo stesso è di tutte le cose che l’anima persegue con un violento desiderio.-
Là per là non diedi troppo peso a quelle parole che per me avevano un significato oscuro ed arcano, ma esse, come leggerai in appresso, si sarebbero poi rivelate esatte e veritiere.
            Nei giorni che furono l’invadenza dei due villici aumentò sempre di più. Essi, praticamente, stavano più in casa nostra che nella loro, tanto da indurre mia madre, paziente e tollerante per natura, a mandarli via una sera:- Adesso, se permettete, comare Giuseppa, siamo un po’ stanchi e vorremmo andarcene a letto…-
- Ah, ci ni cacciati? – disse la donna molto contrariata.
- No, non è per mandarvi via, ma è che siamo stanchi…-
- Vi siti stancati? E nce ne jammo! Pasquà, piglia chillu fiasco de vino che avimmo purtato, vo dicere ca nce lo bivimmo nui suli in casa nosta! - concluse Giuseppa quasi inviperita, prima di andare via col marito senza neanche salutare.
- Si saranno offesi? - disse mia madre.
- Ma no! vedrai che domani li rivediamo comparire qui in casa come il solito – rispose mio padre, ma non fu così.
Il mattino dopo Riccardo  giocava a palla nello spiazzo antistante casa nostra e con un calcio, involontariamente,  la mandò oltre lo  steccato, dall’altro lato,  proprio dove
 c’era il cane.     Così, per raccogliere la palla, scavalcò la palizzata, ma alcune assi di questa, già usurate e fradice, cedettero ed il ragazzo di colpo andò a sbattere con la spalla proprio sul canile. La bestia saltò fuori e fu solo grazie alla catena se non poté dare addosso a mio fratello. Tutti corremmo a vedere cosa fosse accaduto e Giuseppa gridò: - Pe’ la vita mia! Che sanghe de la ‘Mmaculata è successo? - Poi, quando si avvide delle assi rotte e del cane che abbaiava e sbavava, aggiunse: - Pe’ la Madonna! Tutti pari vui furastieri! Vi pigliate licenza di poter fari tutto! Viniti da le case voste sciacquettose e vi sintiti padroni di tutto! Signori de lo cacchio siete!-
Mio padre cercò di rabbonirla:- Suvvia, Giuseppa, la palizzata si ripara. Provvedo a tutto io.-
- Certo, comare!- fece mia madre – E’ stato un incidente, cosa da nulla…-
- Ma chi cumare e cumare? E quanno t’aggio cresimate a te ata?- urlò ancora Giuseppa, prima di rientrare in casa sbraitando e bestemmiando.
            Quell’atteggiamento così ostile ed aggressivo ci aveva decisamente presi alla sprovvista, eravamo spiazzati, non sapevamo più cosa dire o fare. Così la cosa più saggia fu quella di tornarsene dentro senza altri commenti. Perché la villica aveva reagito in quel modo? Da un’attenta analisi psicologica sono pervenuta a queste conclusioni: non era più riuscita a nascondere un odio ancestrale che ha radici medioevali nelle ingiustizie e nelle prepotenze subite dai contadini in epoca feudale, quando il castellano era simbolo di benessere e ricchezza, allo stesso modo di come ora lo siamo noi cittadini che possiamo permetterci una vacanza, tralasciando guadagno e lavoro, a tutto vantaggio del solo nutrimento dello spirito.
            Ma solo due giorni dopo accadde un fatto sorprendente: Giuseppa si presentò di buon mattino in casa nostra portandoci del caffè: - Nun mi so’ prestata bene chill’ato ieri.- disse sorridendo a mia madre che le aveva aperto la porta – Jamme mò, pigliateve ‘sto ccafè fresco e fumante che ve face bene! (Non osammo rifiutare, sebbene il caffè lo avessimo già preso proprio qualche momento prima). Non fu pe’ la steccata che è vecchia e va in malora, ma fu pe’ lo cane. Lu bestio lu tenimmo da la nascita; lo pigliammo cchiù morto che vivo sotto quelli alberi di olive lì quando jettimo a fa' la brucatura[2]. Lo avimmo allevato e nce avimmo fatto le spese picchè facisse lu guardiano…Sapite, latte, pane, carne, uh quanto magna! E lu face buono lu guardiano. Nisciuno se pote avvicinari che lu cane nun l’avvisti! E nun voglia Maria Santissima delle Grazie che qualcheduno lu trovasse sciuoveto! E’ capace d’accidere, sapete! Pi chesto aggio temuto e aggio perduta la ragione: aggio avuto paura pe’ lu figlio vuosto, comare…-
- Beh, fortuna che non è successo niente…- disse mia madre abbozzando un sorriso.
- Furtuna!- rispose la donna - Ma nun facite avvicinari a nisciuno chè lu cane è maligno! -
Parlava di quel cane in un modo non bene individuabile: non si riusciva a capire il suo sentimento, se provava amore, odio, compassione, tenerezza o che altro. Probabilmente non provava niente, quell’animale era solo una delle tante cose che aveva lì davanti alla casa: non più di una carriola, di qualsiasi altro attrezzo da lavoro, certo meno di una gallina o di un albero da frutta.
La povera bestia sembrava essere stata messa a guardia di una botola chiusa con un catenaccio che era proprio accanto al suo casotto. Una notte, verso la metà del mese, fui svegliata da forti rumori che provenivano proprio da quella botola: qualcuno cercava di uscire forzando ripetutamente gli anelli ai quali era collegato il catenaccio. Battendo sulle ante con colpi frenetici uno dopo l’altro, il misterioso ospite di quel sotterraneo sembrava voler recuperare una libertà persa da troppo tempo. Nascosta dietro un finestrino del saloncino, lo sentivo gemere con lamenti incomprensibili, suoni gutturali che poco avevano di umano. Poi vidi che la porta della casa dei villici si apriva e ne usciva Giuseppa in camicia da notte. La donna, che brandiva tra le mani un nodoso bastone, si avviò verso la botola mentre suo marito, apparso dietro di lei, cercava inutilmente di dissuaderla e di trattenerla. Lei si avvicinò alla caditoia e sferrò sui portelli tre o quattro tremende randellate, dopodiché non si udì più nulla provenire dall’interno: né rumori né gemiti. Poi, sempre seguita dal marito, si riavviò verso casa; quando fu sulla soglia, prima di entrare, diede un’occhiata in giro e guardò verso di me. Fu allora che temetti di essere stata scoperta a spiare e mi ritrassi di scatto.
- Riccardo! Riccardo!- svegliai mio fratello scuotendolo e chiamandolo sottovoce.
- Cosa c’è? – egli rispose con la voce impastata di sonno.
- C’è qualcosa o qualcuno nella botola vicino al cane…-
- Qualco…qualcuno? -
- Si, ne ho sentito i lamenti. Pare stesse male…-
- Chi vuoi che ci sia? Avrai sognato! – disse e riprese a dormire.
Tornai anch’io a letto, piena di incertezza, e non potei fare a meno di pensare e ripensare a ciò che avevo visto e sentito. Ad ogni modo, dopo un po’, vinta dalla stanchezza, mi addormentai, ed il mio fu un sonno strano, lungo e profondo come non mi era mai capitato.
            Mi svegliai di soprassalto che era mattino inoltrato. Furono gli strilli di Giuseppa a tirarmi giù dal letto:
- Uh, Santa notti di Natali! Sciagura a vvui! Sciagura a vvui! – sbraitava contro la nostra casa correndo avanti e indietro per il suo orto.
 Cosa è successo? – le disse uscendo mia madre.
- Maledizione a vvui!- sentenziò Giuseppa, puntando contro la mamma l’indice della mano destra – Aviti avvelenato lu cane!  Si, maleditti tutta la famiglia vosta! Ma nun ‘a finisci ccà…Io ve la faccio pagari! - tornò dentro di corsa sbattendo la porta-
- Ma cosa è accaduto? - chiese mio padre comparendo ancora in pigiama sulla soglia. Mia madre si diresse verso il casotto del cane dove la bestia era stesa a terra esanime con la bocca piena di bava verdastra.
- E’ morto il cane…- disse, e poi aggiunse: - E’ stato avvelenato!-
Mentre tutti gli altri andarono via, mi attardai a guardare, e non ti nascondo, caro cugino, che mi fece molta impressione vedere quella bestia enorme senza vita, con gli occhi sbarrati e la bocca schiumosa aperta in una smorfia di terrore. Pensai a chi poteva essere stato e perché? E quando, visto che a notte fonda il cane era ancora vivo? Pensai che quella gente, dato il loro modo di fare, potessero avere dei nemici, che, magari, l’ululo notturno del cane poteva aver dato fastidio a qualcuno degli altri paesani…
Mentre ero assorta in queste meditazioni, la botola, seppur serrata dal catenaccio, si sollevò per quel tanto da lasciar uscire una mano. Lanciai un grido di spavento e corsi via a raccontare tutto ai miei genitori che, visibilmente preoccupati, andarono a bussare alla porta dei villici per chiedere loro spiegazioni.
 La zita[3] avìa pigliato ‘n’asso pe’ figura[4]! –disse la donna dando l’impressione di volerla tagliar corta. – Nu…nun nce sta nisciuno ne la cantina! - confermò, non senza esitazione, Pasquale – So’ 'mpressioni de picciotti che se credono de vede’ cose, unni nun ce stanno.-
La sera stessa ci fu gran consiglio in famiglia: mio padre passeggiava avanti e indietro fumando la pipa, mia madre era seduta su una sedia a dondolo vicino al camino con mio fratello accanto, in piedi, poggiato al muro con le braccia  conserte.
- Vi dico che c’è qualcuno là sotto!-  dissi.
- E chi sarà mai?- s’interrogò mio padre sbuffando una nuvoletta di fumo.
Intervenne mia madre:- E poi perché è prigioniero là sotto? Non sarà mica quello che ha avvelenato il cane?-
IO: - Ma no! Era già lì dentro quando è stato ucciso il cane. –
MIO PADRE: - Ma cos’è poi quella botola lì?-
IO: - Dobbiamo avvertire i carabinieri…-
MIA MADRE: - I carabinieri?-
MIO PADRE: - Dovremmo, però, prima accertarci di come realmente stanno le cose. Magari la situazione non è così misteriosa come la vediamo noi adesso…-
MIA MADRE: -Forse si tratta di un animale…-
IO:- Con le mani?-
Mio fratello, che fino ad allora aveva taciuto, mi si accostò e disse: - Ci vado io! Vado a vedere di chi si tratta. Sarà semplice: prenderò dal loro deposito di arnesi una cesoia e…zacchete! Trancerò il catenaccio e via…-
- Inaudito! Questa è una vera e propria violazione di domicilio. E’ un reato! – dissentì mio padre.
Ed io: -  Non è forse un reato tenere prigioniero qualcuno, di chiunque si tratti?-
            Ad ogni modo, nottetempo, seguii Riccardo nel suo intento. Egli, con inaspettata destrezza, s’impossessò di una cesoia e riuscì ad aprire la botola. Un enorme fetore fu il primo ostacolo da superare: sembrava si trattasse del budello di una latrina, tanta era intensa la puzza. C’era un buio infernale nel quale si tuffavano quattro o cinque scalini di legno. Fortuna che avevamo con noi una lanterna. Appena scesi giù sentimmo un suono indistinto fra un grugnito ed un lamento. Alzai la lanterna per vedere meglio e feci luce su un piccolo vano sotterraneo nel quale vi erano un tavolino, una sedia ed un lettino sul quale scorgemmo, tutto rannicchiato, un essere. Sull’istante non riuscivo a rendermi conto di cosa o di chi si trattasse tanto abnorme era la sua figura. Aveva un corpo grosso e massiccio, ma non era di statura alta. Dire che aveva un volto mostruoso sarebbe dir poco: gli occhi e le orecchie erano asimmetrici ed il naso era simile ad un impasto carnoso. In testa non aveva altro che una scarsa peluria. Nella bocca sproporzionata, pochi denti si accavallavano l’uno sull’altro. A tale vista naturalmente ci spaventammo e il primo impulso fu di scappare via, ma poi fummo attratti dallo sguardo di quella creatura che sembrava aver più paura di noi. Era docile e gentile ed i suoi occhi, seppur mostruosi, sembravano parlarci, implorare comprensione, umanità. Così mi avvicinai e chiesi: - Chi sei? Come ti chiami? -. Avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma non poteva, era muto e si esprimeva esclusivamente con toni gutturali, dei quali non riuscivamo ad afferrarne il significato. Improvvisamente  la  voce di Giuseppa risuonò alle nostre spalle: -  Si chiama Ugenio ed è figlio mio!-
            Il giorno dopo la donna ci raccontò, suo malgrado, di aver partorito in casa quella specie di mostro: - ‘Un putivamo facelo vede’ alla gente. ‘A gente parla, è cattiva e ride pe’ le disgrazie de li altri. ‘Un putivamo fa ride la genta!-  Lo avevano tenuto nascosto e segregato per vent’anni in quel tugurio sotterraneo in condizioni disumane dandogli appena da mangiare e facendolo uscire talvolta solo di notte a prendere un po’ d’aria. – ‘A mammana[5] -  disse -  facitti ‘u voto, pena la stessa vita sua, di nun dì niente.-  Dopo il racconto propose anche a noi un giuramento del genere.
- Ma è disumano! – si oppose mia madre.
- E’ disumano ancora de cchiù mostrà ‘stu figliu miu pe fa sghignazzà a tutti, femmine e omini. – rispose Giuseppa. – Che vi pinsati che a me nun me pesa vede’ ‘sta creatura ‘nchiusa in quello inferno? – continuò – Ma pinsati che nun sarria più inferno ancora pi isso fora de casa mia? Pinsati che a  lu paese pozza piacè o passà pe’ sottobanco uno come isso? None! La genta è malvagia! -  E sbraitava ad altissima voce e gesticolava e si contorceva come in preda ad una crisi isterica.
- Comunque sia, noi non possiamo tacere. Dobbiamo denunciare questo delitto alle autorità. – disse mia madre. –Signora comare! – urlò Giuseppa avvicinando il suo grugno al viso di mia madre – Qua, in casa mia, l’autorità so’ io! E maledico a vui! Vui state male, e dentro ‘na settimana vuie ve ne murite!-
La mamma rimase senza parole, senza fiato, pallida e terrorizzata, con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Poi, guardando mio padre disse: - Non mi sento bene…-  ed andò a rinchiudersi in camera sua.
            Chiedendo un po’ in giro per San Martino, seppi che la levatrice che agiva in paese vent’anni prima era ora una vecchia soprannominata “ ‘a Radiciana” e che viveva  poco fuori Taurianova. Avevo bisogno di parlargli, così mi recai da lei. Abitava in una bella casa che sorgeva in frazione Amato, un agglomerato contadino sulla strada che collega Taurianova a Gioia Tauro. Anche questa zona era circondata da uliveti. La molazza con le macine di granito era già pronta per la frangitura, così pure i buoi da traino che muggivano in una stalla poco distante. La raccolta delle olive sarebbe avvenuta in settembre, ma già era tutto pronto per la lavorazione giacché un proverbio contadino del luogo recitava: “chi macina fresco, macina franco”, indicando che più breve sarà il tempo di conservazione delle olive e migliore sarà il prodotto finale.
La casa, ben tenuta, graziosa e pulita, era tutta un bel vedere di fiori  multicolori. Quando bussai alla porta venne ad aprire un bel giovane: era Antonio, il nipote della vecchia levatrice. Mi chiese cosa mai potesse volere una bella ragazza come me da un’anziana “mammana”, e quando gli dissi che cercavo informazioni su un parto avvenuto vent’anni prima, rimase un po’ perplesso, ma, poi mi fece entrare e mi fece attendere in una stanza. Dalla finestra si vedeva un frantoio ed in un magazzino si scorgevano le tinozze dove l’olio veniva messo a decantare per alcuni mesi protetto da luce e calore in modo da rendere meno deciso il tipico pizzicore della macinazione.” ‘A Radiciana” comparve sulla soglia della stanza che neanche me ne accorsi. Era una donna enorme e si muoveva a malapena su due gambe che sembravano tronchi d’albero.
- Lu nipote mio ‘ntra pochi ‘nce porterà lu rosolio…o vuo’ ‘nu bicchiere de’ vinu?-  disse.
- Lu ruso…il rosolio andrà benissimo. -
- Brava! Allora assittate ‘nzine a li divane e dimme pe’ qualu mutive me vaje truvanne..-
Mi sedetti proprio mentre Antonio portava un bicchierino di rosolio su un piccolo vassoio d’argento. Bevvi il liquido tutto d’un fiato assaporandone l’ottima qualità e la dolcezza, poi dissi:
- Vent’anni fa voi avete aiutato a partorire una donna giù a San Martino…-
- Una solamente? La maggior parte de li abitanti de’  lu borgo so’ passati pe’  li mani mie…-
- Sto parlando di Giuseppa quella che ab...-
- Giuseppa? Si, ‘a saccio…Giuseppa…-
- Nacque una creatura deforme che, incolpevolmente,  è rimasta segregata finché noi…-
- Basta accussì!- disse la vecchia donna –Farrìa buone a girà li tacche e a te ne jacere là da do’ sì venuta se t’è cara la salute! – e senza dir altro andò via. Ero appena uscita da quella casa quando fui raggiunta da  Antonio, il quale mi disse che la nonna aveva ancora qualcosa d’importante da dirmi e mi pregò di ritornare.
- Megghiu di cani muzzicati ca di mali vicini ‘mbidiati! – sentenziò la vecchia – Si aviti scoperto lu segreto di Giuseppa, la Santissima Vergine del Rosario vi guardi, chè vui arrisicate la vita! Per questu t’aggiu mannata a chiamari. Vui aviti a che fari cu’ ‘na fattucchiera che ne sape una cchiù de’ lu diavolo. Stamme a sentiri a me, bella figliola: Jativinni primma che sia troppo tardi!-
            Il giorno dopo mia madre fu presa da strani malesseri di varia intensità che andavano da frequenti capogiri a spiacevoli stati depressivi, diminuzione di memoria, difficoltà di concentrazione, senso di spossatezza e mancanza di forze. Un medico del luogo, venuta a visitarla, ci disse: - Si tratta di uno stato di prostrazione psicologica. Sarà opportuno farla riposare con un infuso di erbe. Dal momento che è certamente ossessionata da qualcosa, fareste bene che al più presto possibile la portaste via da qui. - Fu così che mio padre decise che l’indomani stesso avremmo fatto le valigie per tornarcene a casa, ma il giorno dopo le condizioni di mia madre peggiorarono talmente che non fu possibile  farla alzare dal letto. Ella accusava terribili dolori e disturbi fisici non associabili ad alcuna malattia conosciuta. Durante quella mattinata venne a farmi visita Antonio. Fu molto carino nell’interessarsi dello stato di salute di mia madre, ma in realtà egli era venuto per portarmi un messaggio verbale della nonna.
- Ha detto la nonna che dovete guardarvi dal malocchio! – disse – Mi ha detto che a Taurianova ci sta uno stregone che vi può aiutare. Andiamo a trovarlo, ti ci porto io.- Mi invitò a salire sul suo calesse.
            Il ragazzo si era innamorato di me, e questo non mi dispiaceva affatto. Egli sembrava essere come l’unico raggio di sole che filtra attraverso le nubi nere di un cielo tempestoso. Ed io avevo voglia di scaldarmi a questo sole, di mostrare il mio viso alla sua luce rassicurante, di sentirne il calore. Fu così che a mezza strada il cavallo sembrò capire e si fermò da solo, senza alcun comando. Restammo, non so per quanto, forse un minuto, forse due, in silenzio a guardarci negli occhi, poi la sua bocca si avvicinò alla mia e, tra l’odore dei gelsomini e dei lillà, seppur nel frangente più drammatico della mia giovane esistenza, assaporai per la prima volta il frutto dell’amore.
            Lo stregone era l’omino della bottega di antiquariato che avevo conosciuto tempo addietro:
- Nessuno, dico, nessuno vi ha messo in guardia dalla vostra vicina di casa? – mi chiese, ottenendo da parte mia solo un segno di diniego. Poi continuò: - Ci troviamo in un periodo di maggior rischio: c’è, infatti, un aspetto negativo tra la Luna e Saturno: La prima occupa il campo dodici che è significativo di grande sensibilità alle influenze maligne e di scarsissima resistenza agli attacchi occulti. Dal momento, poi, che Saturno si sta congiungendo con Nettuno e Urano, la prognosi è ancora più infausta. -
Non comprendevo nulla di Luna, Saturno, Urano, così, in preda ad una terribile angoscia, guardavo l’omino con gli occhi strabuzzati e a bocca aperta.
Cosa avete fatto per attirare l’attenzione di quella strega? – chiese l’antiquario senza ottener risposta neanche questa volta.
- Hanno scoperto un suo terribile segreto…- intervenne Antonio – Lei è un mago, uno stregone, deve aiutarli.-
- Un terribile segreto? Un terribile…segreto…Cosa può fare uno stregone in un caso difficile come questo? Non può fare nulla!-
- Dio! – implorai quasi piangendo.
- Personalmente non può fare nulla perché esistono casi in cui l’unico baluardo alla malvagità può essere solo l’oggetto verso il quale è indirizzato il maleficio. Contro chi ha inveito la strega? -
- Un po’ contro tutti noi..-  risposi.
- Come può riparare a questo un mago o uno stregone? – si chiese pensoso l’omino – Soltanto trasformando il soggetto in apprendista stregone o apprendista strega a sua volta! Mentre il rattrappimento del campo dell’energia vitale di un individuo è dato da un’azione esterna alla quale l’individuo stesso, subendola, si adatta, la dilatazione del campo vitale o la sua rivitalizzazione è un atto di volontà e di decisione soggettiva dell’individuo.-
- Non capisco…- dissi io.
- In altre parole – spiegò lui – l’assoggettamento dell’individuo viene dall’esterno, la sua libertà dall’interno. Soltanto chi ha subito un attacco può scegliere se assoggettarsi all’attacco stesso o ribellarsi risvegliando il dio che giace in lui.- Entrò nel retrobottega e ne uscì con un oggetto di creta. Era una maschera abbastanza simile a quelle che aveva esposto fuori, ma molto più piccola, tanto da stare nel palmo di una mano. Si trattava della riproduzione di un volto orrendo, una testa cornuta con serpenti al posto dei capelli, bocca grande ed occhi sproporzionati ed asimmetrici. Me la mostrò e disse: - Questa ha un valore enorme…-
- Ma io non ho…-
- Non voglio soldi. Te lo presto. E’  un antico amuleto assiro. Si tratta del demone della fecondità ed ha un potere energetico fortissimo ed apotropaico che procura l’allontanamento del male.- Poi mi invitò a sedere, fece il segno della croce, recitò tre Gloria, un Pater Noster ed il Credo, quindi ripeté a memoria:
 
“Nesci occhi smalidittu,
pemmu trasi Gesù Cristu.
Pe’ lu nomi di Gesù
nesci malocchiu e nun turnari cchiù.
E pe’ la Santa notti di Natali
mu sguagghi[6] comu l’onda de lu mari.”
 
            Mi consegnò la maschera e mi disse: - Con questa,ora, anche tu sei una strega e saprai difenderti! Domani verrò a casa tua a scacciare il malocchio dalle mura e dagli altri componenti della tua famiglia.-
Restai frastornata da quella incredibile miscellanea di sacro e profano accavallati imprudentemente l’uno sull’altro, agganciati in una sequenza grottesca. Avrei avuto ben donde di che dubitare se non fossi stata io stesso testimone degli incredibili fatti che ci stavano accadendo. Così, devo dire, caro cugino, che mi sentii alquanto confortata dal rimedio che l’uomo mi aveva dato, tanto da decidere di agganciare la maschera ad una catenina e di mettermela al collo.
All’indomani, però, strano a dirsi ed a credersi, il calesse dell’antiquario, mentre percorreva la via per San Martino, urtò violentemente con una ruota sopra una pietra e si rovesciò travolgendo il pover’uomo che rimase ucciso sul colpo.
Intanto, le condizioni di mia madre peggiorarono ancora di più. In un momento di lucidità, sillabando a malapena le parole, mi disse:- Ho sognato un frate. Egli portava un quadro con l’immagine della Madonna che, ad un certo punto, ha mosso gli occhi rifulgenti di luce ed ha guardato verso la Luna sulla quale è apparsa una gran croce.-
Antonio mi spiegò poi che si trattava di frate Angelo, un monaco vissuto nel 1500 e autore di molti prodigi. La Madonna era la Patrona Maria Santissima della Montagna, la cui immagine nel 1894 si ravvivò facendo gridare al miracolo. Mia madre doveva aver saputo in qualche modo di quelle storie e le aveva sognate. Era il suo modo di combattere il timore degli influssi esterni, di combattere quella sua paura che attirava vibrazioni nefaste ed apriva la porta a ciò che temeva. Era il suo modo di annientare l’odio.
            Quel giorno stesso mio padre cominciò ad accusare forti dolori allo stomaco ed a vomitare. Il medico, convocato di nuovo, dopo un’attenta visita, ci guardò in faccia tutti, poi, spostando una tendina, lanciò uno sguardo fuori, verso la casa di Giuseppa e disse: - Per quanto mi riguarda si tratta di un attacco di gastrite acuta per il quale posso prescrivere della polvere di magnesia, ma, considerata anche la strana malattia della signora e…il posto dove vi trovate, direi che più che un medico vi serve consultare un conoscitore di arcane realtà. Se una persona si trova nella stessa stanza con un’altra persona che ha il raffreddore o l’influenza, questa non mancherà di essere contagiata. Qui sembra che stia accadendo la stessa cosa, solo che non si tratta di un virus, ma sembrerebbe l’azione distruttrice di una maledizione. -
Caro cugino, leggi bene adesso cosa accadde quando con Antonio e mio fratello Riccardo cercai di recarmi dal droghiere a comprare la polvere di magnesia. La bottega si trovava poco oltre la linea ferroviaria che separava il centro del paese dalla periferia. Il mattino era caldo e soleggiato e lungo la strada ferrata resistevano ad un leggero venticello gli ultimi radi papaveri. I binari rilucenti  scottavano e in mezzo alle traversine fissate al terreno pietroso con enormi bulloni, oziavano serpi e lucertole. Nel punto in cui attraversammo c’era uno scambio di rotaie che veniva azionato con una leva a mano e che portava in realtà su di un binario morto che andava a finire, poche centinaia di metri dopo, dietro una piccola collinetta. Fu nel preciso istante in cui Riccardo  attraversò la strada ferrata che il vecchio marchingegno si mosse, come spinto da una mano invisibile, e gli bloccò un piede.
- Cosa diavolo succede?- gridò mio fratello.
- Lo scambio…si è mosso da solo!- disse Antonio
RICCARDO: - Mi ha imprigionato il piede. Fate qualcosa…
IO: - Ma come può essersi mosso da solo? –
ANTONIO: - E’ opera della megera!-
IO: - Vuole distruggerci! Distruggerci tutti!-
 
Udimmo il fischio di un treno provenire da lontano.
 
IO: - Mio Dio! Il treno!-
ANTONIO: - Cerchiamo di muovere la leva del cambio…-
 
Insieme ci buttammo sul marchingegno, ma per quanti sforzi facessimo esso non si spostava neanche di un millimetro. Provammo e riprovammo mentre il fischio del treno si avvicinava e con esso il rumore dello sbuffo della sua vaporiera.
 
IO: -Signore aiutaci! –
ANTONIO – Proviamo di nuovo con la leva! –
 
Macché, era come se fosse di pietra!
 
 - Mamma! Mamma! –  urlava Riccardo piangendo.
 
Il terreno tremava tutto ed il treno, ora, lo si vedeva arrivare. L’ansimare della vaporiera  fu coperto da un fischio lungo e terribile. Il macchinista dovette evidentemente azionare i freni poiché udimmo il loro stridore, ma il convoglio non avrebbe fatto in tempo a fermarsi.
- Livia! – Gridò Antonio – Le parole dell’antiquario! Ricordati di ciò che disse quando ti consegnò l’amuleto: “Con questo ora anche tu sei una strega e saprai difenderti”-
Strappai dal collo l’amuleto e lo puntai verso la leva del cambio pronunciando una frase breve e decisa in una lingua a me del tutto sconosciuta: - Akru dirkei,  vokesu, eko mal!- e poi ripetei ancora:- Eko mal! Eko mal!-
La leva si mosse! Mio fratello fu libero dalla morsa del binario proprio un attimo prima che il treno transitasse con tutto il suo enorme sferragliare. Riccardo era esausto, impaurito, ma salvo!
            I nostri vicini di casa non si vedevano più in giro, vivevano rintanati nella loro bicocca, e solo di tanto in tanto vedevo la faccia della Giuseppa affacciarsi dietro le ante, sempre socchiuse, di una delle sue finestre. Sul volto riuscivo a leggere l’insanabile odio che, ne ero ormai sicura, era la fonte primaria di tutti gli eventi negativi che ci stavano capitando. Una sera, mentre lei come il solito, ci stava spiando, comparve alle sue spalle anche il marito: il suo aspetto era quello di un uomo attanagliato da una grande angoscia, combattuto da sentimenti violenti e contrastanti. Quando la megera mi vide fu attirata dalle fattezze del talismano che avevo addosso. Gli occhi del mio demone di creta cominciarono dapprima a scintillare, poi ad accendersi di una luce che divenne via via sempre più accecante, fino a quando la malvagia donna  emise un grido e chiuse di colpo le ante della finestra.
            Quella notte stessa le condizioni di mio padre e mia madre peggiorarono ancora di più, ed anche mio fratello fu pervaso da un intenso tremore molto simile a convulsioni epilettiche. Mia madre sembrava ad un passo dalla morte, il suo volto era pallidissimo, le sue labbra viola, il suo respiro affannoso. Mio padre, paonazzo in viso, vomitava bile, gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite per i tremendi conati. Ero disperata!
Ma è proprio nei momenti di maggior disperazione, caro cugino, quando si pensa di aver ormai raggiunto il fondo che si trova la forza di reagire, di risalire la china, di combattere…
Decisi di affrontare la Giuseppa! Così uscii di casa, andai nel suo deposito degli arnesi e presi un’ascia. Decisamente mi recai alla botola, mi ci piazzai sopra e cominciai a sferrare tremendi colpi. Allorché, una dopo l’altra, le assi di legno furono saltate via insieme al catenaccio, mi affacciai  sul boccaporto e gridai: - Hei tu! Vieni fuori! Sei libero!-
La creatura venne su illuminata appena dai raggi della luna. Si guardò intorno senza sapere cosa fare. La presi per mano e la portai in casa mia, mentre lei ed il marito spiavano dalla finestra senza avere il coraggio di intervenire. Quando tornai di nuovo fuori, li trovai entrambi sulla soglia della loro porta: lei era furibonda, ma sembrava bloccata da una strana paura che non avevo mai riscontrato in precedenza. Mi avvicinai e lei si ritrasse come respinta dall’oggetto che portavo al collo. 
- Cosa vuoi da me, brutta fattucchiera? -
- Tutta la mala sorte di ‘stu munno! M’avite accise lu cane e nun avite abbadate a li fatte vuoste!-
- Noi non abbiamo ucciso il tuo cane, ma tu e tuo marito finirete in galera per quello che avete fatto a vostro figlio.-
- Tu murirai primma di dumani! – Sentenziò Giuseppa.
- No!- interruppe il marito alle sue spalle- Lu cane l’aggio acciso io! Si, io! Nun putìa cchiù suppurtare che quella bestia facisse la guardia a lu figghiu nostro prizuniero là sotto! L’avarria liberato si n’avesso avuto la forza, ma nun putevo, era lu segreto tuo! Quella creatura mostruosa la genta nun la doveva vede’! Così volevi e così è stato fino a mò! Ma mò basta!…-
- Stammi a sintiri, marito mio…- interruppe Giuseppa.
- Stammi a sintiri a me, vecchia strega disumana! Mo stesso, ‘u vidi, vaco a la gendarmeria a me costituì! Io pago la mia debolezza, ma tu finisci in galera cu me!- Si avviò verso la strada di Taurianova e scomparve nella notte. Giuseppa lo seguì con lo sguardo finché poté, poi si rivolse a me: - Murirai primma di domani!- urlò, e rientrò in casa sbattendo la porta.
            Quella notte ero sola nel saloncino, seduta sulla sedia a dondolo davanti al camino, quando una forte folata di vento aprì la porta e mi fece sobbalzare. Un ombra scivolò in terra e si allargò man mano come una macchia d’olio. Si spandeva sul pavimento, saliva su per le pareti della stanza, poi ne discendeva. Pian piano circondò l’angolo nel quale ero seduta, ed era, ormai, ad un passo da invaderlo completamente, quando il mio amuleto cominciò ad illuminarsi di nuovo e ad emanare la sua luce intensa che la investì e la bruciò con una fiamma fredda e bluastra. Contemporaneamente sentii Giuseppa che urlava in casa sua. L’enorme tensione e lo spavento ebbero il sopravvento su di me: svenni.
            Alle prime luci dell’alba fui ridestata dalla voce dolce e suadente della mamma: - Livia…Livia, svegliati…Cos’hai? Cosa mi è successo? Non ricordo nulla… -
-Oh, mamma! Mamma! -  Mi girai intorno, c’erano anche mio padre e mio fratello che mi guardavano.
Allora cercai di alzarmi dalla sedia, ma qualcosa me lo impedì: non sentivo più le mie gambe, ero stata colpita da una misteriosa ed improvvisa paralisi vasomotoria.
Pasquale fu arrestato; la Giuseppa fu trovata morta in casa, colpita da infarto; il figlio fu rinchiuso in un istituto per minorati fisici e mentali.
            Ora io sono qui, incollata a questa sedia, non per sempre però. Il dottore ha parlato di immobilità psicomotoria da shock esterno. La cosa è superabile pian piano, ci vuole tanta fiducia nei propri mezzi fisici e l’aiuto di un companatico indispensabile per la vita di ogni essere umano: l’amore. E per fortuna l’amore non mi manca: c’è quello incommensurabile di mia madre Aurelia e mio padre Augusto, quello sbarazzino e confortante di mio fratello Riccardo, ed infine quello indispensabile di Antonio che ora lavora qui a Roma nella nostra bottega. Nei momenti liberi egli mi porta a villa Borghese dove, tra il canto degli uccelli ed il passeggio della gente, riesco a dimenticare la brutta avventura vissuta e ad alimentare la speranza che prestissimo potrò camminare di nuovo. Intanto, poiché ho saputo che stai per recarti in vacanza proprio in Calabria, accludo a questa mia il piccolo talismano assiro. La Calabria è una terra bellissima, piena di uliveti e di agrumi, con tanta vegetazione, tanto mare ed un cielo stupendo sotto il quale si celebrano innumerevoli feste civili e religiose che ne alimentano la tradizione ed il folklore. Sono certa che l’amuleto non ti servirà, però…non si sa mai!
            Ti saluto con un bacione forte
Tua cugina Livia “
 
 
 
Tratto dal mio libro "AD OCCHI APERTI" - Racconti di fantasmi, streghe ed altre apparizioni
 
 

[1] Antico nome di Taurianova (R.C.)
 
[2] Raccolta delle olive effettuata manualmente per ogni singolo fusto.
[3] La ragazza
[4] “Si sarà sbagliata” – Proverbio regionale calabro- campano
[5] La levatrice
[6] Sciolga
 

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