Scritto da © Antonio Cristof... - Mar, 19/03/2013 - 06:00
Nel tempo in cui collaboravo col giornalino della mia scuola, venni a conoscenza di alcuni fatti veramente particolari ed insoliti che si conclusero, poi, con un lieto fine. Mi occupavo, allora, di una rubrica intitolata “NUMERI CHE PASSIONE!”, nella quale davo spiegazioni ai lettori del perché e del come i numeri del lotto fossero abbinati ad oggetti o ad avvenimenti. Spiegavo, ad esempio, tenendo conto di precisi riferimenti storici, come al numero 6 corrispondeva l’organo sessuale femminile, o al numero 3 il gatto, o al 90 fosse abbinata la paura, e così di seguito.
In quel periodo mi stavo occupando del numero 16 (il culo). Dovete sapere che in epoca vicereale, a Napoli, durante la dominazione spagnola, chi non poteva più pagare i debiti era punito in modo particolare: il povero disgraziato di turno veniva legato nudo ad una mezza colonna (per questo chiamata "la colonna infame", e da questo deriva l’esclamazione dialettale “mannaggia ‘a culonna!”) situata proprio fuori il palazzo della Vicaria dove aveva sede il Regio Tribunale. Ivi il malcapitato era sottoposto allo scherno popolare per un numero di giorni pari all’entità del debito. Le popolane additavano il condannato indicandolo ai figli e, riferendosi al sedere scoperto, dicevano loro pudicamente: - Guarda, tengono in mostra quello che non se dice.- “Se-dice…” Capite? Vale a dire sedici.
Questa ricerca mi aveva indotto ad approfondire le mie conoscenze su quel periodo storico ed a documentarmi sulla zona dei Tribunali di Napoli.
Le storie mirabolanti che si raccontano da quelle parti sono tante, ma quella che mi colpì maggiormente riguardava certi fenomeni avvenuti in Vico dei Gerolomini, in un antico basso[1] situato in un edificio che pare risalga al XV Secolo ancora oggi in buono stato. Pare che questa fosse stata l’abitazione di un tal don Paolo Greco, cocchiere di corte. Costui, accusato dal capo degli armigeri di aver contrabbandato merce varia, fu, prima imprigionato, poi duramente condannato alla pena della decapitazione. La condanna fu eseguita misteriosamente di notte, all’interno del carcere della Vicaria ed alla presenza di pochissimi testimoni.
Mi chiesi, allora, il perché di tanta riservatezza in quella esecuzione, visto e considerato che a quell’epoca le pene capitali venivano eseguite nelle pubbliche piazze, in pieno giorno e davanti all’intera popolazione come deterrente contro la delinquenza. Vero è che i genitori, nell’attimo culminante dell’esecuzione, schiaffeggiavano i figli proprio perché quel momento potesse rimanere per sempre impresso nella loro memoria e convincerli a rigare dritto.
Dal momento che la mia curiosità mi portò a svolgere più accurate ricerche su questo don Paolo Greco, scoprii che costui aveva davvero guadagnato somme illecite di denaro, grazie all’uso della carrozza reale con la quale introduceva facilmente nel regno ogni sorta di merce di contrabbando. Ma egli non era che un piccolo ingranaggio di una vasta organizzazione che aveva a capo potenti altolocati di corte, i quali si arricchivano sempre di più senza correre il minimo rischio. Uno di questi fu certamente il conte D’Avalos di Montemarano, un ambiguo signorotto che in poco tempo aveva accresciuto la sua potenza economica e politica stringendo connubi con la malavita napoletana, con la corte del vicereame ed addirittura con quella di Spagna. Egli, temendo, dunque, di essere scoperto, esercitò la sua malefica influenza sui giudici della Vicaria e fece condannare a morte il Greco col beneplacito dello stesso Viceré, conscio della situazione e timoroso ( don Paolo al processo-burla aveva fatto i nomi dei capi) di uno scandalo che avrebbe potuto diminuire il suo prestigio agli occhi dei reali della madrepatria e di altre nazioni. Con la morte del Greco, la vicenda sarebbe stata messa a tacere, e, avendo l’uomo minacciato di gridare il nome del D’Avalos e degli altri implicati nel losco affare nella pubblica piazza al momento dell’esecuzione, considerato che, prossimo alla morte, sarebbe stato creduto, per maggior sicurezza, lo stesso fu giustiziato nottetempo, contro ogni protocollo, entro le mura del carcere di detenzione.
Don Paolo salì sul patibolo ad ora tardissima, appena appena rischiarato da una pallida luna. Il palchetto era stato del tutto improvvisato utilizzando una pedana di quelle che usano ancor oggi i pescatori per selezionare il pesce. Il ceppo, naturalmente, era stato posto al centro ed accanto ad esso attendeva il boia, un ometto tanto mingherlino ed ossuto da far dubitare che ce la facesse ad alzare la mannaia. Il Greco fu decapitato con un colpo solo e la sua testa cadde con gli occhi sbarrati nel cesto. Fu proprio allora che avvenne un fatto mirabolante: nel cesto, la testa, prima sghignazzò, poi urlò una frase minacciosa: “ Lo inferno me vommecarrà[2] et io me venarria a pigliare at uno at uno le vite di tutti chilli che m’hanno scapato[3]”. Infine chiuse gli occhi e ristette finalmente immobile. Proprio in quell’istante nel cortile del carcere si sollevò un vento impetuoso e violento che avvolse in mulinelli d’aria foglie ed immondizia sparsa qua e là sul selciato. Il corpo senza testa del condannato si alzò dal ceppo, fece qualche passo barcollando sul palco, poi cadde giù come un sacco vuoto. Questa scena provocò un tale sgomento e terrore fra gli astanti, che alcuni fuggirono via, altri si segnarono con la croce, ed altri ancora restarono ammutoliti paralizzati da tale orrore. Fatto sta che tutti coloro che concorsero affinché don Paolo fosse condannato morirono davvero in circostanze misteriose e drammatiche, a cominciare da uno scagnozzo malavitoso che fu trovato impiccato al ramo di un pino a dieci metri da terra, ed a finire col D’Avalos, il cui corpo fu rinvenuto infilzato sulle lance del cancello di casa.
Fu proprio in quel periodo che cominciarono a verificarsi strani fenomeni nella casa del cocchiere a Vico dei Gerolomini. Dopo la sua morte, la casa era rimasta vuota e molti asserirono che dal suo interno si sentivano dei rumori, dei bisbigli e delle risa. Qualcuno disse addirittura di aver visto, attraverso il buco della serratura, un’ombra senza testa che deambulava per la casa.
Il racconto si sposta ora ai nostri giorni, precisamente a quattro anni fa quando proprio in quel basso andò ad abitare una prostituta di nome Emanuela. Costei era una donna non più giovane, dall’apparente età di quarant’anni, e di aspetto ancor piacente. Usciva di casa puntualmente alle otto di sera e vi ritornava più o meno intorno alle quattro del mattino. Era dedita alla prostituzione fin da giovanissima età, ma, dal momento che la gran parte dei soldi guadagnati finivano nelle tasche di un losco sfruttatore, non viveva certamente nell’agio. Giunta ormai alle soglie della quarantina, non essendo più appetibile come prima, le sue entrate si erano ridotte di molto provocando l’ira del “protettore” che finiva molto spesso col riempirla di botte. Così la poveretta, per guadagnare di più era costretta a prolungare le ore di intrattenimento in strada ed a cambiare frequentemente zona.
Una mattina, rientrando, scoprì che la porta di casa era aperta, così corse subito dentro per controllare cosa fosse accaduto, ma vide che non era stato toccato nulla e tutto era al suo posto. Si accertò allora dello stato della porta ed osservò che questa non era stata scassinata. In ultimo, si convinse di averla lasciata sbadatamente aperta. Qualche giorno dopo, però, il fenomeno si ripeté, e giorni dopo si ripeté ancora e poi ancora. E quando Emanuela, convinta che qualcuno del suo vicinato o il suo sfruttatore stesso potesse essere in possesso delle chiavi di casa sua, fece cambiare la serratura, il fenomeno si ripeté ancora.
Decise, allora, di rimanere per un po’ in casa durante la notte per verificare le cause dello strano evento. Trascorse le prime due notti sveglia a leggere un libro, ma alla terza notte si addormentò ed il mattino dopo trovò la porta puntualmente aperta. Pensò, allora, di dormire di giorno e vegliare di notte e così fece, pur sfidando le ire dello sfruttatore che andò a picchiarla fino in casa.
Una di quelle notti, mentre era intenta a guardare la televisione, udì come un bisbiglio provenire dall’armadio dal quale qualcuno le sussurrò: - Esco a truvà la capa mia…-. Le ombre di tutti gli oggetti di casa, mobili compresi, cominciarono a tremolare come se proiettate da fiammelle di candele; le ante dell’armadio si aprirono e da esso ne uscì una figura spettralmente luminosa di un uomo senza testa che le passò davanti, aprì la porta ed andò via.
Emanuela rimase atterrita da quell’apparizione. Aveva sempre ritenuto che tutte le cose che si raccontavano su quella casa fossero assurde dicerie. Ora aveva costatato con i suoi occhi che la sua abitazione era davvero “speciale”.
Un po’ più distante dal Vico dei Gerolomini c’è Vico del Fico al Purgatorio. Come il primo, è uno stretto passaggio che unisce altri vicoli. Ha “bassi” bui, profondi, umidi, triste rappresentazione non lontana dall’azzurro divino spettacolo del mare. In uno di questi bassi abitava donna Luisa. La sua casa altro non era che una piccola stanza dal pavimento tutto sconnesso; attorno, appesi ai muri, vi erano immagini di santi ed olivo benedetto; su una mensoletta c’era un ritratto ingiallito di un bell’uomo davanti al quale tremolava la luce di un lumino. Costei era una donna anziana che per via di un paio di caviglie sempre gonfie camminava pencolando a fatica. Aveva perso il marito da giovane; un figlio era emigrato in Venezuela e di tanto in tanto le mandava notizie di sé insieme a qualche soldo. Come Emanuela, viveva da sola ed era una vera esperta di “banco lotto”. Era un vero portento nel trasformare i sogni in numeri. Per questo tutte le altre donnette del vicinato si rivolgevano a lei, chiamandola “Comare” e ricompensandola, in caso di vincita, con pacchi di pasta, zucchero, farina, riso o che altro.
Una notte anch’ella fece un sogno strano: sognò di avviarsi per un vicolo e bussare ad una porta. La porta si apriva e dietro di essa compariva una donna. Fin qui nulla di strano, ma il fatto cominciò a divenire misterioso allorché donna Luisa ripeté il sogno la notte dopo con l’aggiunta di altri particolari: dietro la donna c’era un’ombra senza testa che si aggirava per la casa in cerca di qualcosa. La notte dopo fece di nuovo lo stesso sogno con la differenza che questa volta l’ombra uscì di casa e, passandole davanti, le sussurrò: - Vaco a cercà l’ultimo gaglioffo discendente ‘e chilli che m’hanno condannato et at illo me ripiglio la capa mia!”.
Una mattina, la buona donna si recò in Tribunale per certi documenti che le servivano, e, nel fare la via del ritorno, passò per vico dei Gerolomini: si ricordò allora che era quello il posto che aveva sognato così insistentemente. ravvisò anche la porta del basso: era quella di Emanuela. Così, come nel sogno, spinta da forte curiosità, andò a bussare. Emanuela, dopo qualche istante, aprì, e tale fu la meraviglia della “Comare” nel vedere la donna che aveva sognato più volte, che rimase senza parole.
- Che vulite?- chiese Emanuela.
- Vuie? Vuie…- balbettò donna Luisa, poi le chiese di entrare.
Quando fu in quella casa non molto diversa dalla sua (i bassi a Napoli si somigliano tutti), fu attraversata da un brivido e si sentì quasi mancare. Emanuela la soccorse e la fece sedere sul letto, poi le chiese di nuovo: - Ma chi site? Che vulite?-
E l’altra: - Che brutta impressione n’aggio avute quande so’ trasuta int’’a ‘sta casa, figlia mia! Ma chi ci sta?-
- Io qua ci vivo da sola…-
- No, tu nun staie sola!-
In breve donna Luisa le raccontò la faccenda del sogno, ed Emanuela le riferì, invece, quello che aveva visto e, di conseguenza, la vecchia le consigliò di far benedire il “basso”.
Emanuela fece effettivamente benedire la casa, ma quei fenomeni continuarono a verificarsi fino a quando, una mattina, il suo protettore fu trovato ucciso e decapitato in un altro vicolo poco lontano. Da quel giorno non accadde più nulla. Non solo, con l’aiuto della vecchia “ Comare” giocò al “Lotto” cinquecento lire su quattro numeri: 77 la casa stregata, 39 il morto decapitato, 34 la testa e 90 la paura. Sortirono per la ruota di Napoli tutti e quattro, e la donna vinse ben quaranta milioni di lire. Non più costretta dal malefico sfruttatore, si ritirò dalla strada e da allora divenne Donna Emanuela, benvoluta e rispettata in tutto il Vico dei Gerolomini, sposò un brav’uomo della sua età e da allora visse felice e contenta.
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