C'era una volta la nonna Elisa che raccontava quando non c'era la tv | Prosa e racconti | Antonio Cristoforo Rendola | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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C'era una volta la nonna Elisa che raccontava quando non c'era la tv

Ogni tanto, nei rari momenti in cui resto solo, mi ritornano in mente i giorni gai dell’infanzia con tre immagini preponderanti, oggetti indelebili di tutti i miei ricordi: una rondine, un fischio, un calamaio.
La rondine, vago uccello dalla perfetta forma d’arco, solcava una fetta di cielo sul mio naso voltato in aria, compariva ed in due secondi era già volata via. Era quello il tempo delle mie tenere primavere, di tiepido sole, di fiori che non avevo e di campi multicolori che potevo ammirare in estasi solo sui libri scolastici di lettura.
Il fischio era quello dell’uomo vestito di bianco: il lattaio, col suo triciclo tintinnante per le bottiglie di vetro a bocca larga dalle quali travasava il misero quarto, o al massimo il mezzo litro, di latte che potevamo allora permetterci. Era un omone grande e grosso che compariva sul suo mezzo a pedali all’angolo del vicolo e fischiava a lungo per richiamare donne e bambini che correvano ad acquistare il prezioso liquido con bicchieri, bottiglie o scodelle.
Il calamaio, chi potrà mai dimenticarlo? Complice dei miei primi pensieri stesi sulla carta, fautore delle macchie d’inchiostro che mi costavano sempre brutti voti. Era lì, nero come la pece, collocato in un apposito buco sulla tavoletta sollevabile del mio banco, ancor più nero dell’inchiostro e nel quale mi confondevo col mio nerissimo grembiulino. Ma, se codesti erano solo stimoli per addentrarsi nei meandri più reconditi dei miei ricordi, la vera protagonista era lei, nonna Elisa, dalla cui bocca venivan fuori a fiumi antiche novelle di perduti amori, gesta d’eroi, ma soprattutto storie di fantasmi irrequieti, spiriti dannati, sinistre apparizioni che riuscivano a coinvolgere in modo tale la mia mente, che ancor oggi riprovo i brividi di allora.
 

 

L’ombra

 
Nel 1915 i venti di guerra che infuriavano su tutto il mondo non sarebbero stati neanche avvertiti come un lieve zefiro a Barile, un paesino in provincia di Potenza, se non fosse stato per la coscrizione dei giovani del paese da avviare al fronte. I pochi uomini rimasti si spezzavano la schiena nei campi di grano, e, sul far della sera, si ritrovavano nelle bettole del paese tra l’intenso odore del formaggio, in mezzo alle botti e sotto a “nzerte”[1]d’aglio appese alle travi, a giocare a carte con in palio bevute di vino. Era così che tutti finivano per ubriacarsi e, in preda ai fumi dell’alcool, spesso davano luogo a vere e proprie risse che, il più delle volte, finivano con la riappacificazione dei contendenti e con un’ultima bevuta generale.
In una di queste taverne, poco fuori del paese, Nicola si era recato a bere il suo buon bicchiere di vino bianco. Era costui un giovane di bell’aspetto e non era, quindi, difficile credere che potesse avere un certo successo con le donne della zona. Per questo suscitava l’invidia degli altri uomini ed in particolar modo di un tale don Eugenio, un ricco individuo sulla quarantina, l’unico a possedere un’automobile: una fiammante Balilla nella quale si pavoneggiava su e giù per il paese. Una sera, durante un banale litigio, Eugenio apostrofò Nicola con l’appellativo di “femminello”. La reazione del giovane fu immediata e violenta. Egli, forte com’era, sferrò un cazzotto a don Eugenio che andò giù a gambe levate. Da allora quest’ultimo non fece altro che attendere il momento propizio per vendicarsi dell’affronto subito.
Nicola aveva messo gli occhi su Rosa, una bellissima lavandaia che ogni giorno andava a sciorinare tele nel lavatoio della piazza del paese. Era un bel vedere quando ella muoveva su e giù il suo bel corpicino tra lo sfavillare dell’acqua e lo svolazzare di variopinte bolle di sapone. Una volta egli le si accostò alle spalle e le toccò il sedere. La giovane sobbalzò, si girò di scatto e cercò di colpirlo con un grosso panno bagnato, ma il suo braccio fu prontamente bloccato in alto da quello di Nicola. I due restarono qualche secondo a guardarsi negli occhi, mentre il panno sgocciolava copiosamente su di loro acqua e sapone; poi si strinsero in un abbraccio e si baciarono. Ne nacque un amore sincero, spensierato, nonostante i tempi di guerra. Nicola e Rosa sembravano fatti l’uno per l’altra. Ma alla ragazza ambiva anche don Eugenio, che le propose di sposarlo ricevendone un netto rifiuto. Per l’uomo, abituato ad ottenere tutto ciò che voleva, questo fu un vero e proprio affronto. Fu così che, su due piedi, licenziò il padre della ragazza che lavorava in un suo mulino e gli impedì perfino di fare acquisti nell’unico spaccio del paese, anche questo, tra l’altro, di sua proprietà. Cosicché per poter acquistare alimenti e sementi, Rocco, il padre di Rosa, era costretto a percorrere molta strada per recarsi in un paese vicino.
- Ti denuncerò per gli imbrogli sul peso che fai nel tuo mulino! – gli disse un giorno. Ma di lì a poco, proprio mentre tornava sul suo calesse dall’essere andato a fare provviste, fu freddato da una schioppettata sparatagli da una mano misteriosa. L’assassino non fu mai scoperto, ed il delitto fu archiviato come avvenuto ad opera d’ignoti. In seguito a questa morte infame ed assurda l’intera famiglia dell’uomo cadde nello sconforto e nella miseria più nera. Ma per Rosa il destino aveva riservato un altro gran dolore. La masseria di don Eugenio sorgeva su una piccola collina a lato di una strada lungo la quale c’era anche la casa di Nicola. Per tornare alla sua abitazione il giovane doveva, quindi, passare a lato del portico del ricco uomo. Ebbene, una notte il giovanotto stava percorrendo stancamente quella via. Aveva da poco lasciato Rosetta e, cammin facendo, il suo pensiero era ancora rivolto all’ultimo bacio scambiato con la ragazza. Don Eugenio si era appostato, armato di coltello, proprio dietro un portico, e, quando il giovane passò, gli fu alle spalle e gli urlò: - Ohè, Nicolino! Ti ricordi dei cazzotti che mi hai dato? Ora va a malora tu e tutte le tue cose! – e senza dargli neanche il tempo di replicare gli piantò la lama nel petto, quindi si caricò in spalla il corpo, lo portò in un boschetto lì vicino, e lo sotterrò. Cosicché di Nicolino non se ne seppe più nulla. Lo stesso don Eugenio sparse la voce che se n’era scappato al nord con una donna maritata di un paese vicino. Così la povera Rosa, già distrutta per la morte del padre e le tristi condizioni della sua famiglia, dovette incassare anche quest’ultimo duro colpo. Il suo carattere s’indebolì, e fu così che cedette alle lusinghe e alle proposte di matrimonio del bieco don Eugenio che, di lì a poco, divenne il padrone di quasi tutto il paese. Si circondò anche d’uomini senza scrupoli, per mezzo dei quali esercitava un incontrastato potere sulla gente del luogo. Erano scagnozzi di malaffare, pronti ad usare le mani, e finanche le armi, per imporre la propria volontà sui più deboli. Erano una vera e propria guardia del corpo di don Eugenio contro possibili ritorsioni e vendette di chi aveva subito prepotenze e soprusi. A farne le spese fu la povera Rosetta che, trovandosi a passare per una viuzza poco fuori il paese, fu assalita, picchiata e violentata da tre individui che, lasciandola esanime e mezza nuda in terra, le dissero: - Questo è per far pagare il conto a quel bastardo di tuo marito!-
Don Eugenio, egoista com’era, non rimase particolarmente colpito da quell’avvenimento, se non per il fatto che qualcuno aveva osato toccare la roba sua. In realtà, egli non aveva mai amato Rosetta. L’aveva voluta e considerata alla stregua di una buona bottiglia di vino pregiato: dopo stappata, si gusta l’aroma, se ne beve il contenuto, ed infine si butta via. Del resto, più di una volta, dopo il matrimonio, aveva rivolto le sue attenzioni ad altre femmine, da una delle quali aveva avuto pure dei figli. – Tu non sei buona a darmi creature? E io me le vado a fare con le altre!- gridò un giorno alla povera donna che si era scoperta sterile. La vita nel castello-masseria sulla collina fuori Barile era divenuta infernale. Per paura di attentati alla vita di don Eugenio, nessuno poteva entrare o uscire che non fosse accuratamente controllato; robuste sbarre erano state imposte a tutte le finestre; un uomo era sempre a guardia del portico d’entrata; ad una certa ora della sera era istituito il coprifuoco e nessuno, servi o fattori, amici o parenti che siano, poteva più uscire o entrare, o addirittura avvicinarsi al caseggiato.
Una notte di agosto Rosetta non poteva dormire per il caldo che le toglieva il respiro, così pensò bene di alzarsi ed uscire fuori sul balcone padronale per respirare un po’ d’aria fresca. La nottata era fantastica, la scarsissima illuminazione permetteva una perfetta visione della volta stellata dove, tra il luccichio degli astri, balenava qualche stella cadente. In basso, al centro del cortile, c’era un solo lampione a petrolio che rimaneva acceso tutta la notte. Rosetta sentiva i passi dello sgherro che era a guardia davanti al portico: essi si allontanavano e si avvicinavano, poi udì lo schiocco di un fiammifero (e appena ne intravide il bagliore) col quale l’uomo si accese una sigaretta. Ad un tratto vide un’ombra di un altro uomo allungarsi davanti al portico; questa, senza esser veduta, entrò nel cortile e scomparve in un buio anfratto. La donna, allarmata, si chiese: - Chi mai potrà essere? – e grande fu la sua meraviglia quando vide che l’ombra, riuscendo dall’angolo buio, era solo una sagoma scura, senza nessuno che la proiettasse! Essa attraversò il cortile e si fermò sotto il lampione, vi girò intorno per qualche secondo, poi, improvvisamente spiccò un volo impazzito, molto simile a quello di un pipistrello; volteggiò in aria per altri pochi secondi, dopodiché si diresse proprio verso Rosa, le sfiorò il viso e scomparve nella sua camera da letto dove dormiva anche don Eugenio.
La donna lanciò un grido di sgomento che svegliò di colpo il marito: - Cosa diavolo succede? – gridò l’uomo.
- Ho visto un’ ombra…- rispose la donna.
Don Eugenio si affacciò al balcone e chiamò la guardia giù al portico: - Olà, tu che sei di guardia…-
- Servo vostro, don Eugenio…- rispose lo sgherro comparendo sotto l’arco appena appena illuminato.
- Hai mica veduto qualcuno?-
- State tranquillo. Nessuno passa di qua che io non veda. Felice notte, padrone!-
Don Eugenio si rivolse alla moglie, le fece un mezzo sorrisino e le disse: - Te la sarai sognata l’ombra…-poi se ne tornò tranquillamente a letto.
Rosa lo seguì con lo sguardo e notò per un attimo che l’ombra proiettata dal marito sul muro dietro il talamo nuziale, le appariva diversa, era un’altra sagoma che le ricordava vagamente qualcuno.
Il giorno dopo, quando si svegliò, si ricordò dello strano fenomeno dell’ombra e cominciò a guardarsi intorno, come per cercare quell’insolita sagoma vista la notte prima.
Don Eugenio dormiva ancora quando un timido raggio di sole s’infilò nella stanza attraverso un’imposta lasciata aperta. Svegliato dalla luce, l’uomo, prima sbadigliò, poi si sgranchì le braccia, infine si mise a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi.
- Che ora sarà? – chiese a se stesso.  Quando si alzò per andare a prendere l’orologio dalla tasca di un gilè appeso alla spalliera di una sedia, Rosa notò che la sua ombra, vaga ed evanescente per la luce solare che ormai aveva inondato la stanza, non lo seguiva e se ne stava  immobile sul muro dietro il letto. Allorché don Eugenio si fu vestito e se ne fu andato via senza neanche salutare, la donna si alzò e si mise in ginocchio sul letto guardando sbalordita sulla parete quell’ombra rimastagli ferma  davanti.  Solo allora le parve di riconoscerne le forme, ebbe la sensazione che qualcuno che lei aveva già conosciuto le stava ora innanzi. Così, pian piano, alzò una mano e cominciò ad accarezzare la parete sulla quale si stava verificando lo strano fenomeno. Con la punta delle dita sfiorò prima l’ombra dei riccioli, poi scese pian piano sul volto. Fu allora che udì una voce: - Rosa…Rosa non mi riconosci? Se pur non tocchi più la mia carne, se pur non senti più i miei baci, hai forse dimenticato anche la mia voce?-
- Nicola! – urlò Rosa.
- Nicola, si! – confermò la voce – L’uomo che ti sta accanto mi colpì a tradimento con una coltellata e mi seppellì, ancora vivo, nel boschetto di fronte alla masseria, dove sorge la grande quercia spezzata. -
- Non è stata, dunque, un’altra donna a portarti via da me?-
- Fu Signora Morte, e per mano sua. Fu egli, inoltre, a far  uccidere tuo padre per impedirgli di denunciarlo per certi imbrogli.-
Rosa, con la mano tremante accarezzò ancora il muro mentre le lacrime le scorrevano copiose sul viso disfatto, sul collo, fino a penetrare a rivoli nel seno appena ricoperto da una sottoveste di seta.
- Cosa vuoi che faccia, anima mia? – disse singhiozzando. L’ombra non rispose e si dissolse pian piano sconfitta dalla luce del sole.
Quella mattina stessa Rosa si recò, armata di pala, nel boschetto presso la quercia spezzata e scavò nel terreno. Scavò, scavò, fino a scoprire il corpo del povero Nicola con le mani protese in alto, nell’atto estremo di spostare la terra che lo ricopriva. Fu allora che ebbe l’assoluta certezza di non essere diventata una pazza visionaria. Non avvisò la gendarmeria perché i lutti ed il dolore che le aveva arrecato quell’uomo, la vita infelice che le aveva dato, le umiliazioni che aveva dovuto subire la indussero a voler farsi giustizia con le sue stesse mani. Quando quella notte don Eugenio rincasò, ne udì la voce provenire dal cortile, era completamente ubriaco. Egli diede disposizione ai suoi uomini per la guardia notturna, poi si portò sotto il lampione al centro del cortile e cominciò a gridare: - Rosa!…Rosetta, sta arrivando il lupo cattivo…Ma bada che sono un po’ fiacco! E sai chi mi ha sfiacchito?  E’ stata Virginia, la sartina. Quella si che ci sa fare! Ti prende certe misure! –
Rosa lo guardava nascosta dietro le tendine, e piangeva e si disperava per la vergogna. Notò allora l’ombra che si allungava in terra: non era quella del marito, ma quella di Nicola. Così si risolse, andò in cucina, prese un coltello e lo nascose sotto il cuscino del letto nuziale. Poi fece finta di dormire. La porta della stanza si spalancò di colpo.
- Allora, mia cara? – sbraitò don Eugenio trangugiando ancora del vino da una fiaschetta che stringeva tra le mani. – Ho ancora voglia di donna, sai? Ma che fai dormi? Svegliati lurida zoccola… che ho ancora… voglia…di…- e, dicendo dicendo, cadde sul letto e si addormentò di colpo. Durante la notte Rosa, prima lo pugnalò al cuore, poi gli tagliò la testa!
 
Nonna Elisa era una vera miniera di racconti fantastici, uno scrigno di storie di fantasmi, streghe o altre apparizioni. Aveva un modo di raccontare incessante ed intenso, ricco di particolari con i quali riusciva a farti vivere la vicenda quasi da protagonista, a farti sentire parte di essa, a farti provare indicibili emozioni, riuscendo ad impressionarti anche con il racconto più banale. Imitava l’ululato del lupo mannaro, il fischio sinistro del vento nelle notti tempestose, lo sferragliare di un treno, la furia del mare, le voci di streghe, orchi, maghi e fate. E più ti vedeva interessato alla narrazione più si accaniva a coinvolgerti. Ti sembrava così di stare in un bosco incantato, o in un castello stregato, in un antro segreto, o in una casa infestata da spiriti malvagi. –Ucci, ucci, ucci, sento odor di cristianucci! – tuonava minacciosa, alzando le braccia come per ghermire noi bambini che andavamo a nasconderci sotto il letto.
 

 

Il lupo mannaro di Rionero

 

Si narra che alla fine dell’800 a Rionero, un paesino in provincia di Potenza, ci fosse il lupo mannaro.  Molti lo avevano sentito urlare nelle notti di luna piena, alcuni giuravano addirittura di averlo visto nottetempo saltellare su quattro zampe nei campi di grano. Si raccontava che sbranasse interi greggi di pecore e che uccidesse chiunque lo incontrasse, ma in realtà non c’erano mai state stragi di ovini di quella portata,  né particolari omicidi da potergli attribuire. Eppure la sua leggenda volò rapida per tutto il territorio, ed ancora oggi, nei bar del centro, parlano del lupo mannaro di Rionero.

Certo, in quel tempo, a nessuno mai era venuto in mente di avvicinarlo ed accertarsi della vera natura del suo male. In realtà si trattava di Giuseppe, un fornaio affetto da asma bronchiale. La sua malattia si era talmente aggravata da pregiudicarne finanche lo stato psicologico. Era così che egli usciva di notte, credendo che l’aria fresca gli facesse bene ai polmoni; scorazzava per strade, valli e boschi in preda a tremenda frenesia dovuta proprio alla cattiva respirazione. Era così che, non riuscendo a respirare, emetteva gemiti e rantolii  acuti e terribili, suscitando paura tra coloro che lo sentivano o lo avvistavano.
Certo fu che Giuseppe era divenuto ormai un pover’uomo, solo, abbandonato da tutti, senza conforto e senza speranza. Morì in una notte d’autunno, per strada, come un cane randagio. Il suo corpo fu ritrovato seminudo, ricoperto da foglie e fango. Ma la leggenda non ebbe fine qui. Una bella mattina il guardiano del cimitero si accorse che la sua fossa era vuota e  che il suo cadavere era sparito. Alcuni giurarono di averlo sentito ansimare tra le reste del grano o ululare alla luna nel boschetto di castagni. La gente, dunque, continuava ad averne paura e per questo evitava di uscire al calar delle tenebre, specialmente nelle notti di luna piena. Ma proprio in una notte di luna piena, don Antonio il bottaio era di ritorno da Monticchio, una località molto distante da Rionero, dove era andato a prelevare certe botti da riparare. Era all’incirca l’una, quando il carretto sul quale viaggiava urtò con la ruota una grossa pietra. Per effetto del colpo la puleggia scostò via il quadrante di ferro ed uscì dall’asse, e solo per puro miracolo il carretto non si rovesciò interamente, ma rimase in bilico. Grande fu subito la disperazione e la paura del povero bottaio quando s’accorse dell’enormità dell’accidente: - San Francesco mio! – disse – E mò come faccio? Mi ci vorrebbe una trave per far leva, ma è troppo buio e non ho neanche una candela…Madonna mia Santissima, aiutami!-
Non ebbe neanche finito di parlare, quando, poco lontano, vide il formarsi di un’aureola luminosa che pian piano prese le sembianze di un uomo che portava in mano una candela.
- Chi sei tu? Uomo o demonio?-
- Non mi riconosci? Sono Giuseppe, il lupo mannaro!-
- Mamma mia!!!-
- Ma tu che cosa hai  da temere? Sono io l’unico che può aiutarti in questa notte nera. Non hai forse bisogno d’aiuto per rimettere in sesto la ruota?-
- E come? Né io, né tu siamo forti abbastanza…-
Senz’altro dire, Giuseppe mise una spalla sotto l’asse del carretto e lo sollevò, mentre don Antonio immediatamente avvitò la puleggia ed il quadrante di ferro.
- Ma sei tu vivo o morto?- chiese il bottaio senza avere risposta, e poi salì a cassetta e continuò: - La gente dice che tu ammazzi…La gente dice che spargi il terrore…-
- La gente dice, dice…- rispose Giuseppe.
- Come posso ringraziarti?-
- Porta con te questa candela, ti farà luce per il resto del viaggio. Domani mattina, quando ti sveglierai, porta ciò che rimane di essa a Rifreddo, cinquanta passi a nord della Madonnina, scava e seppelliscila in quel punto. -
Il bottaio salutò e si allontanò nella notte. Arrivato a casa sistemò la candela sul comodino accanto al letto e si addormentò. Il mattino dopo, quando si svegliò, grande fu la sua meraviglia quando si avvide che al posto del cero vi era un dito umano. Senza perder tempo si recò a Rifreddo presso la cappelletta della Madonnina, contò cinquanta passi a nord e cominciò a scavare. Scava e scava, trovò il corpo di Giuseppe: era orrendamente mutilato, il petto ed il ventre gli erano stati aperti ed erano stati portati via cuore e stomaco. Il cadavere del poveretto era stato smembrato da loschi individui, che avevano venduto i suoi organi a disonesti  studenti di medicina di Potenza. Notò, inoltre, che ad una mano del pover’uomo mancava proprio un dito. Per interessamento del bottaio il corpo di Giuseppe fu ricomposto ed ebbe degna sepoltura nel cimitero di Rionero. Sul fosso, pietosamente, fu piantata una croce di legno ed una piccola lapide; “ QUI GIACE COLUI CHE FU BUON UOMO E NON LUPO MANNARO”.
 
 
Allora non guardavo i telegiornali, la televisione era di là da venire, non sentivo freddo, né caldo e tanto meno mi preoccupavo se ci fosse sole o pioggia, o vento o neve. Allora sognavo mondi lontani, terre inesplorate teatri di grandi avventure, nelle quali nessuno moriva mai, dove non c’era odio, dove non c’era fame. Ma i sogni, come si suol dire, muoiono all’alba, e la mia alba era che in casa soldini ce n’erano talmente pochi da dover rinunciare, non solo ai maggiori alimenti della mia fantasia (cinema e fumetti), ma spesso anche ai pasti quotidiani. Mi ricordo di una vigilia di Natale. La settimana prima, mio nonno che faceva l’ imbianchino non aveva lavorato, di conseguenza quella sera in casa non c’era di che mangiare. La nonna, seduta in disparte, mi guardava e piangeva; quella volta non aveva voglia di raccontare storie. Ad un tratto sulla soglia della porta comparve la signorina Carmelina, un’anziana zitella, vicina di casa, che viveva da sola. Aveva tra le mani un fumante piatto di capellini al burro:
- Signora Elisa, - disse- ne ho fatti un po’ di più per il bambino. Questo posso darvi e questo vi do…-
 
 

Notte Santa

 

“Dint’’a nuttata, la Madonna e San Giuseppe arrivarono a Betlemme…”

 
La nonna avvolse la prima forchettata di capellini e m’imboccò.
 
Era ‘na nuttata umida e fredda, ma splendida, e in cielo brillavano mille stelle, e ci stava pure una luna piena che rischiarava il borgo, manco ci fosse la luce elettrica!
San Giuseppe disse: - Maria, sei stanca? – e la Madonna, preoccupandosi per l’anziano marito, rispose con un’altra domanda: - Giuseppe, lasso sei?-
La verità era che stavano stanchi tutti e due. Il viaggio era stato lungo, e mò tenevano sonno, fame e pure sete.”
 
-Tengo sete pure io…-  dissi, e la nonna mi diede da bere.
 
“Avvistarono un’osteria dalla quale sentivano provenire voci confuse, rumori di bicchieri e fiasche, risate e ammuina varia. San Giuseppe bussò alla porta, e venne ad aprire l’oste: un uomo grande e grosso, brutto come un orco e senza capelli, con un mantesino[2] addosso tutto ‘nzivato.[3]
- Chi siete? Che volete? – disse con voce roca.
- Siamo viandanti, un marito e una moglie incinta che sta per sgravare. Vorremmo del cibo e una stanza-
-  Potete pagare? -
- Posso lavorare, sono falegname…-
- Non mi occorrono falegnami.  Né cibo, né stanza!-
E chiuse loro la porta in faccia. Bussarono ad altre osterie ma dappertutto furono cacciati in malo modo. Giuseppe disse a Maria: - Marì, sposa mia, qua stiamo digiuni. Tengo nella saccoccia un pezzo di pane tosto che manco basta per due persone. Mangialo tu che hai bisogno di maggior nutrimento. E poi, il pane è duro e io non tango nemmanco i denti…-“
 
 
La seconda forchettata di capellini era piena di formaggio. Masticai ed ingoiai con appetito. Che buon sapore!
 
 
 “Faceva tanto freddo e le stelle brillavano nel cielo terso. L’aria era finissima e pungente. Giuseppe si levò il mantello tutto rattoppato che teneva addosso e lo poggiò sulle spalle di Maria.
 
 
Quel piatto di pasta fumante stava trasferendo in me, forchettata dopo forchettata, un calore che andava ben oltre quello fisico. Era un calore umano, dovuto alla generosità della nostra vicina che aveva diviso con me quel poco di pasta ed un pezzetto di burro che aveva.
 
 
“Cammina e cammina, i due sposi arrivarono ad una stalla. Maria stava ormai lì lì per partorire, così senza pensarci troppo, San Giuseppe la portò all’interno e la fece sdraiare sulla paglia. Alle loro spalle ci stava una mangiatoia con un bue e un asinello. Dopo qualche ora, Maria partorì un bel bambino, bianco come un giglio, con i capelli color del grano. Il neonato fu messo proprio nella mangiatoia e fu riscaldato dal fiato dei due animali. All’improvviso, fuori, in cielo,apparve una stella più luminosa delle altre: era una cometa seguita da una grande coda scintillante che pareva d’argento. Questa cometa annunciò al mondo che era nato il bambino Gesù, il figlio di Dio. Il miracolo si era compiuto!”
 
 
Avevo appena finito di mangiare, quando sulla porta comparve Gianni, un altro vicino di casa, padre di sette figli che, più di una volta, essendo anch’egli in precarie condizioni economiche, era stato aiutato dai miei nonni.
- Ho avuto dei soldi per un lavoro fatto in passato. – disse – Questa sera, domani e dopodomani siete tutti ospiti a pranzo in casa mia. -
Anche quello fu un miracolo!
 
 

[1] Fasci
[2] Grembiule.
[3] Unto.
 

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