Alfonso e il verme | Prosa e racconti | Franco Pucci | Rosso Venexiano -Sito e blog per scrivere e pubblicare online poesie, racconti / condividere foto e grafica

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Alfonso e il verme

Si chiamava Alfonso, ma per noi della Baia Del Re era “el Funsin”, il piccolo. Alto non più di un metro e mezzo, dal fisico gracile, esile come un giunco, brutto da non guardarsi, si atteggiava a “ras” del quartiere e noi morivamo dalle risate. Nonostante il fisico non proprio statuario, faceva un mestiere che avrebbe per sua natura richiesto ben altre doti di forza e prestanza: el cervelee, ìl macellaio, traduzione per il volgo ma soprattutto per i non milanesi. Forse per questo aveva mutuato un’espressione di falsa ferocia che lo trasformava in macchietta vivente. Oh, ma ci metteva anche del suo, vestendosi come Al Capone, impomatandosi di pessima brillantina i capelli e facendosi crescere quei pochi e radi peli sotto il piccolo naso certamente aquilino che lui chiamava pomposamente baffi. Frequentava, anzi “imponeva” la sua presenza anche nel bar, dove la sera ci si ritrovava per una partita a scopa o a biliardo e spesso noi si evitava di andare al cinema o di fare roccolo per raccontarsi barzellette: bastava dargli spago ed ecco che Funsin prendeva la scena e non la mollava più, fino a notte inoltrata e fino all’ora della chiusura del bar. A questo punto credo sia necessario collocare nel tempo e nel luogo l’aneddoto che sto per raccontarvi. Era il 1969, anno tragico per Milano e l’Italia tutta, e l’episodio si “consuma” esattamente in Via De Sanctis, periferia sud di Milano nella zona anticamente conosciuta come “La Baia Del Re”, per la storica presenza nel quartiere di un noto esponente della mala milanese, chiamato giustappunto il Re. Il bar in questione era proprio all’angolo della succitata via che sfocia nell’Alzaia Naviglio Pavese, dove scorre pigramente uno dei due Navigli di Milano, quello cioè che torna a Pavia dopo aver portato le acque del Ticino a Milano, col nome di Naviglio Grande, ed essersi soffermato nella darsena di Porta Ticinese per poi ripartire. Era dunque, come si diceva, una sera notevolmente nebbiosa e noi tutti si bivaccava nel bar in attesa di decidere come ammazzare la serata: scopa o biliardo?
Scelta fondamentale per il proseguimento della serata, quando tutto d’un tratto vediamo aprirsi la porta e apparire tra le spire della nebbia che si intrufolava all’interno, la sagoma imponente (sic… un metro e cinquanta) del nostro. Qui il suo aspetto merita una citazione a parte, poiché è fondamentale per capire il seguito della storia. Cappello alla Borsalino, portato con affettata civetteria sulle ventitré, gessato fumo di Londra, esibito senza alcun timore per il freddo, nonostante fosse Novembre inoltrato, scarpe di vernice nera, baffo tirato a lustro e capelli brillanti come catarifrangenti sotto la luce del locale. Entra e senza profferire parola infila  cavalcioni, si fa per dire,  una sedia accanto al biliardo e silenziosamente estrae dalla tasca del gessato un coltello a serramanico. A questo punto ci avviciniamo curiosi e alquanto sconcertati per l’atteggiamento, chiedendogli ragione di quel gesto. Al che il nostro, facendo scattare la lama del coltello, inizia con fare strafottente e provocatorio a passare la stessa tra le unghie delle mani, iniziando così un’incredibile, quanto ridevolissima “manicure”! Sollecitato dalle nostre domande e dai nostri sfottò, che immancabili incominciavano a piovere, ci racconta l’accaduto. Si trovava quella sera, un’ora prima dell’arrivo al bar, seduto su una panchina del giardino prospiciente le scuole, in Via Palmieri. Era in compagnia di amici, personaggi conosciutissimi nel quartiere e tutti “titolari” di soprannomi, come d’altronde era usanza e costume, coniati mutuando caratteristiche fisiche o di comportamento dei soggetti. “Funsin”, “Tequila” e “Cavallo Pazzo”, tutti e tre seduti sulla panchina e intenti a giocarsi una proibitissima partita a dadi. Sul terreno l’equivalente di 20.000 Lire di allora. Mentre la sfida si era ridotta a un tete a tete tra Tequila e Cavallo pazzo, il nostro, trovato un bastoncino, giocherellava assorto con un vermetto che, malcapitato, passava da quelle parti. Ma da quelle parti passava anche una gazzella dei carabinieri i quali, notato lo strano movimento nei pressi della panchina, complice il buio e la nebbia incombente, erano apparsi improvvisi alle spalle dei tre pronunciando la famosa frase: “Fermi tutti, documenti! Cosa stavate facendo?” “Niente, niente, risposero i due in coro, una partitina …ci giocavamo i soldi per la pizza…” “I soldi per la pizza? 20.000 lire? Mi volete prendere per il culo? – interloquì il maresciallo – documenti, forza!” Al che impallidendo avevano mostrato i documenti e, ironia della sorte, tutti e tre facevano i macellai. L’incazzatura ed il sospetto dell’ agente aumentò di intensità, così partirono le verifiche di rito via radio. Poi, notando il bastoncino tra le mani dell’Alfonso chiese: “E tu, cosa stavi facendo?” “Io?.. Niente maresciallo, giocavo col verme…” A questo punto il milite non ci vide più, caricò tutti e tre sulla gazzella e li portò in tenenza per gli accertamenti. Alfonso se la cavò con una lavata di capo e con la raccomandazione di essere più accorto nella scelta degli amici da frequentare. Fu allora che scoppiando in un pianto dirotto implorò il maresciallo di lasciarlo andare.  (Questa la versione di come andarono realmente i fatti quella sera, riferitaci in un secondo tempo dai due protagonisti della partita a dadi, multati pesantemente e segnalati alla questura). “ Ma tu come mai sei già qui, mentre gli altri sono ancora dentro?" domandammo. “In questura mi conoscono, sono un duro io, mica l’ultimo dei pirla!” Fu la risposta dell’Alfonso.  Non eravamo sicuri della veridicità del racconto, ma dovemmo abbozzare, d’altronde non riuscimmo mai a recuperare il solo, unico e veritiero testimone dell’accaduto: il verme.
 

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