E’ incredibile come la vita può farci cambiare idea e come tutto possa trasformarsi nel suo opposto. Me ne resi veramente conto quando arrivai a Matera perché a causa del lavoro di mio padre, c’eravamo imbarcati in un ennesimo trasferimento. L’aspetto positivo di questo cambiamento avrebbe comportato incontrare più spesso la mia nonna paterna e le zie mie che vivevano a Bari: oramai, a differenza del passato solo sessanta chilometri ci dividevano. L’aspetto negativo, consisteva nella perdita degli amici e dei riferimenti abituali che mi ero creata a Teramo negli ultimi quattro anni.
La mia vita a Teramo era stata piena di emozioni, di avventure e di affetti: una piccola e luminosissima casa, dei vicini deliziosi, un bellissimo fiume sulle sponde del quale perdevo tempo a parlare con le donne che facevano il bucato, e persino un manicomio proprio dietro casa mia, con tutti quei poveretti che io e i miei compagni andavamo a sfottere un giorno sì ed un giorno no.
Ci piaceva moltissimo vederli così arrabbiati e sentirli urlare frasi oscene, mentre ci lanciavano pane secco attraverso le sbarre. Per non parlare dei miei amici bottegai, dei ragazzi dei quali ero perennemente innamorata, della mia adorata scuola, delle passeggiate sul Gran Sasso. Tutto quello che mi circondava era per me esotico, fantastico, unico, insostituibile; la parola noia non faceva parte del mio vocabolario, il mio motore non era mai spento, mi sentivo viva e felice di stare al mondo.
Con questo trasferimento stavo per dire addio alla mia beatitudine, ed in una certa misura alla mia vita. Disperavo sinceramente di rifarmene un’altra. Otto anni sono veramente pochi almeno agli occhi di un adulto per farsi questo genere di bilancio fallimentare, ma io credetti sinceramente di essere finita.
Anche un bambino prova la sensazione di morire quando gli sembra di aver perso tutto, ma si tratta solo di momenti perchè la vita chiama vita.
Grazie a nuovi amici, cominciai ad assaporare in fretta il miracolo di nuove opportunità e di ulteriori piaceri, e fu molto più facile di quanto mi aspettassi. Per fortuna, così come a Teramo, anche qui avevo spazio e tempo a sufficenza per accrescere le mie esperienze, per conoscere ogni angolo, ogni persona, ogni fatto del mio quartiere.
Avevo conquistato questa libertà ad un certo prezzo, d’altronde si sa che ogni libertà ha il suo. Ogni giorno preparavo il caffé per i miei genitori, rifacevo il mio letto e quello di mia sorella, la aiutavo nei compiti e spesso andavo a fare la spesa per mia madre, oltre che andare a scuola e studiare da sola.
In apparenza sembravo una piccola Cenerentola, di fatto ero una piccola Diana perennemente a caccia. Piuttosto precocemente avevo capito come liberarmi dal controllo degli adulti: bastava dimostrare loro che ero in grado di badare a me stessa, di assumermi responsabilità, di essere affidabile. Non era difficile! In cambio avevo il mondo lì fuori ad attendermi ed io non avevo alcun tempo da perdere in inutili conflitti di potere con gli adulti. Ero disposta ad adattarmi e a soddisfare tutto quanto mi fosse richiesto a scuola o in casa, in cambio della mia amata libertà. Ne avevo bisogno come dell’aria per respirare, mi era estremamente necessaria per tracciare i miei nuovi confini, per sviluppare il mio senso di forza e per equilibrare le mie ambizioni di illimitate possibilità. Il mio impulso a vivere e ad affermarmi era molto forte.
Ero molto curiosa ma stavo attenta a non mettermi nei guai mentre di continuo passo dopo passo, mi inoltravo verso nuove sfide e nuove avventure. Ciò che veramente mi dava gioia era la sensazione di un moto perpetuo, di un flusso costante che ogni volta mi faceva approdare ad un nuovo porto; fosse esso un semplice giardino, una strada o una persona, perdendomi e ritrovandomi, ritrovandomi e perdendomi, incessantemente come i gatti.
Una volta, durante una delle mie solite escursioni, giunsi in una parte della città in cui non mi ero mai inoltrata. Era in centro e non lontano dal forno dove mia madre mi mandava a comprare il pane.Quel giorno dopo aver espletato la mia commissione, decisi di esplorare le stradine circostanti. Ad un certo punto, un bambino mi fermò e senza indugio mi chiese del pane.
Era sudicio, malandato e con le scarpe rotte. Mi fece pena; strappai un pezzo di pane e glielo porsi. Avevo già avuto modo di incontrare ragazzini in quelle condizioni in giro per la città. Ma quella mattina fui particolarmente incuriosita da questo bimbo affamato. Cominciai a fargli domande. Venni a sapere che si chiamava Tonino, che era due anni più piccolo rispetto a me e che viveva nei Sassi. Aveva dunque sei anni, ma ne dimostrava molti di meno.
Sembrava veramente piccino per la sua età. Era decisamente bruttino oltre che sporco ma a me fece ugualmente un’immensa tenerezza. Desiderai immediatamente portarlo a casa: in un attimo mi balenò nella mente la possibilità di farlo diventare mio per sempre; aveva l’aria di essere un bimbo abbandonato e prendendomi cura di lui non avrei di certo fatto male a nessuno.
Lo avrei lavato, nutrito e reso carino. Gli avrei insegnato a leggere e a scrivere e mi sentivo perfettamente in grado di farlo.
Tonino non volle seguirmi, era piuttosto ostinato e diffidente e così fui io ad andargli dietro nei cosiddetti Sassi che non avevo ancora ben capito cosa fossero. Si incamminò e scese giù per certe scalette scoscese, poi passammo attraverso un corridoio stretto e buio alla fine del quale rimasi letteralmente a bocca aperta: lì, proprio davanti ai miei occhi spalancati dallo stupore, stavo scoprendo il paesaggio più insolito e luminoso che avessi mai conosciuto. Una città nella città, più bassa ma sicuramente più maestosa. Una regina. Una sorta di dirupo pieno di caverne e case ammucchiate una sull’altra, scavate nella roccia o costruite con una pietra chiara di un bianco accecante : un Eden sull’orlo del baratro!
Non avevo mai visto niente che neanche lontanamente potesse somigliarle. Questi erano i cosiddetti Sassi nei quali Tonino viveva! I Sassi non erano semplici pietre come avevo creduto, erano un mondo a parte! La città delle città, la città più antica del mondo, era una sorta di odalisca mollemente sdraiata davanti al mio sguardo esterefatto. Custodiva nel suo ventre generoso il segreto più incredibile, la meraviglia delle meraviglie, un raro tesoro: un mondo struggente ed arcaico, con la sua gente dall’aria povera assopita o forse rassegnata e pur tuttavia serena.
Bambini liberi di giocare, di rotolarsi per terra e di rincorrere cani e galline. La totale assenza di auto e solo qualche carretto trainato da un asino, a volte da un cavallo. Un dedalo di viuzze, un saliscendi di scalini a perdifiato, e soprattutto, l’assenza dei rumori della città. Al loro posto solo un vociare di bimbi, di donne indaffarate; tutti avvolti da una silenziosa pace fuori dal tempo.
Ero piena di meraviglia e senza parole. Non riuscivo a capire come mai questo gigantesco presepe fosse così diverso da tutt ed allo stesso tempo per me così familiare oltre che estremamente rassicurante. Diversi anni dopo le parole di Carlo Levi mi restituirono quelle prime emozioni: “ Matera è la capitale dei contadini, il cuore nascosto della civiltà”.
Senza ombra di dubbio, posso affermare che per me la visione di quel mondo matriarcale e comunitario fu una vera iniziazione e forse l’inizio di una malattia fino ad oggi inguarita: quella della fascinazione senza rimedio per l’arcaico, per il culto della natura, per la mitologia, l’antropologia e per l’Arte. D’altronde come sarebbe potuto essere altrimenti? Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare i Sassi sa cosa intendo. Di fronte a quei precipizi, a quell’atmosfera atemporale, ci si sente catturati e trascinati come in una trance ipnotica, in un altrove incalcolabile, indescrivibile, eppure così intimo e sereno. Un ritorno a casa, agli albori del nostro percorso evolutivo: un luogo prezioso, semplice e sereno dove tutto è bene.
Tonino mi portò a casa sua, una specie di grotta buia, dove non c’era nessuno ad attenderlo. Mi convinsi più che mai che era solo al mondo, e a quel punto, promettendogli altro cibo lo indussi a seguirmi. Durante il tragitto verso casa mi sentivo veramente felice, nella mia incoscienza infantile ero sicura che mia madre me lo avrebbe fatto tenere.
Appena arrivati, misi subito in chiaro con lei che il bambino lo avevo trovato io e pertanto mi apparteneva di diritto: in fondo temevo che potesse prenderselo lei. Mia madre si intenerì almeno quanto me di fronte a questo bimbo emaciato, spaventato ma con due incredibili occhi da furetto famelico. Lo lavammo e gli demmo da mangiare. Sebbene fosse così piccolo e masticasse lentamente come un cammello, mangiava quanto un uomo: la sua fame era senza fondo. Ero contenta e fiera di lui: lavato pettinato e con dei vestiti puliti, era terribilmente grazioso. Rimase tutto il pomeriggio con noi ma inaspettatamente all’imbrunire mia madre mi disse : “ Ora riportarlo dove l’hai trovato senza far storie”.
Non potevo crederci! Mi ero abituata all’idea che sarebbe diventato il mio cucciolo. Mi ero illusa di tenerlo per sempre con me, l’avrei certo curato e protetto con tanto amore. Mia madre fu categorica ed irremovibile: “Non si possono prendere i bambini per strada, non diventano tuoi solo perchè li vuoi “.
Disperazione! Da avere le ali al cuore mi ritrovai in un attimo con il cuore sotto terra. Mi sembrava maledettamente ingiusto; in fin dei conti, davo prova di essere affidabile, avrei fatto qualunque sacrificio pur di averlo: sarei stata giudiziosa, avrei diviso tutto con lui. Rinunciare a questo sogno mi parve veramente troppo crudele. Ero partita in quarta, perderlo era come frenare con il freno a mano quando stai andando a 100 all’ora: in un certo senso un aborto.
A malincuore lo riportai a casa sua, dove i suoi lo stavano aspettando già da un bel po'. Furono felici di vederlo così messo a nuovo e mi fecero un sacco di feste dicendomi:“Grazie signurì, bella signurì, brava signurì! “.
Probabilmente in qualche altra occasione tutti questi complimenti mi avrebbero lusingata ma quella sera, avevano l’effetto di deprimermi ulteriormente: io volevo il loro figlio e basta! Ogni mia velleità materna era miseramente crollata alla fine di questo giorno, per altri versi magnifico. Con le orecchie basse e la coda tra le gambe, mogia mogia, me ne tornai a casa.
Se mia madre pensava che quello sarebbe stato il mio unico furto di bambini, di certo si sbagliava. Dopo Tonino ne seguirono altri. Di fatto quando vedevo un bambino solo e messo male, provavo l’irrefrenabile impulso di portarlo via. Per lo più erano bambini poveri che sgattaiolavano fuori dai Sassi, o zingarelli seduti in un angolo di strada a chiedere l’elemosina.
In quegli anni a Matera era assai facile incontrare per strada bimbi poveri, ed io proprio non riuscivo ad ignorarli, sentivo che avevano bisogno d’aiuto e non potevo fare altrimenti ed immancabilmente me li portavo a casa. Ogni volta mi illudevo che quella sarebbe stata la volta buona, forse mia madre avrebbe finalmente capito che stavo facendo una cosa sana e giusta per tutti.
Oggi mi rendo conto che la mia logica infantile era di sicuro più consona a quella di una cultura primitiva, dove i bambini, lungi dall’essere considerati proprietà del singolo, appartengono alla comunità e quindi, se uno di loro ha bisogno di aiuto, la prima persona disponibile se ne prende cura: fosse anche una bambina solo un po’ più grande, ma desiderosa e capace di farlo.
Tonino divenne un membro della nostra famiglia, circa ogni dieci giorni tornava sporco e lercio come al solito, si faceva lavare e cambiare, poi si buttava sul cibo mangiandone una quantità incredibile. Come sempre, sembrava un piccolo animale selvatico e predatore che con occhi diffidenti e pieni di controllo raccattava alla svelta tutto quello che poteva. La sera poi, al solito mi mandavano ad accompagnarlo giù nei Sassi, ma non ottenni mai più di tanto. Avrei voluto un bambino che fosse solo mio, invece mi ritrovai un fratello. Non che mi spiacesse poichè mi ero affezionata a Tonino, ma ciò che veramente desideravo era ben altro.
Se i bambini poveri ed abbandonati mi avevano reso ladra, le rose di maggio fecero di me anche di peggio: oltre che ladra divenni una sfacciatissima bugiarda. Durante una delle mie solite esplorazioni, mi ero resa conto che le case di un quartiere vicino al mio, erano molto più belle ed eleganti e come se questo non bastasse avevano dei bei giardini zeppi di rose dal profumo inebriante.
Verso l’imbrunire questo profumo diventava irresistibile. Allora, a differenza di quanto accade oggi, la gente non aveva paura del profumo dei fiori e non temeva potesse essere causa di indesiderate allergie. I vivaisti non avevano la consuetudine di selezionare le rose perchè fiorissero di continuo ea scapito del loro odore.
Maggio era il mese in cui si poteva godere al massimo della loro copiosa fioritura e del loro sublime effluvio. Le rose erano per me un’altra magnifica e recente scoperta, non mi era mai capitato di incontrarle prima di allora: fu amore a prima vista. Tuttora sono per me i fiori più belli in assoluto: così generose, carnose, piene di una grazia squisita; più di qualunque altro fiore, mi sembrano la più sublime simbolizzazione dell’amore, della vita e della femminilità.
Fu proprio il loro speciale profumo a tentarmi senza rimedio, e quasi senza rendermene conto cominciai a raccoglierle sera dopo sera. Certo, sapevo che equivaleva a rubarle, ma per me quelle rose non potevano appartenere solo ai loro legittimi proprietari; era come se mi chiamassero e mi dicessero: “Prendici, portaci in giro, annusaci, donaci e soprattutto facci vedere il mondo, tutti hanno il diritto di godere della nostra bellezza”.
Così, senza rimorso ma con una certa cautela, cominciai a rubarle sera dopo sera, come una vera ladra con una buona dose di metodo e di audacia. Come una vera ladra, agivo all’imbrunire. Se non finivo un lavoro, lo portavo a termine il giorno dopo. Potevo contare nella fiducia assoluta e sull’ammirazione della mia socia, mia sorella. Rischiavo molto poco, mi davo enormemente da fare con quasi nessun guadagno, e soprattutto agivo fuori dal mio quartiere.
A maggio si celebrava il mese mariano. Avevo conosciuto dei francescani molto simpatici nella chiesa di zona. Io e Marilisa, mia sorella, facevamo credere a nostra madre che volevamo anche noi, come tutti gli altri bambini, frequentare il mese mariano: il mese dedicato alla Madonna.
Mia madre non era osservante ma ci lasciò libere come al solito nel nostro orientamento spirituale, e non seppe mai, poverina, che la nostra vocazione era di ben altra specie: come l’ago di una calamita é attratto verso Nord, con la stessa forza e determinazione noi eravamo attratte verso quei giardini così meravigliosamente colmi di rose.
Il mese mariano era un’incredibile e nobile scusa, in realtà tutto facemmo tranne che pregare. La Madonna non ebbe mai modo di notare la nostra presenza nella sua chiesa, piuttosto ci vide ogni pomeriggio lanciarci all’assalto e al saccheggio dei giardini più rigogliosi, alla ricerca famelica delle rose più belle e odorose.
Personalmente la mia passione era per quelle gialle e ciccione, erano fantastiche; non erano rose erano cornucopie, ma in loro mancanza mi accontentavo di qualunque altro tipo e colore:
ciò che importava era che fossero rose. In genere io, entravo nei giardini, e poi, lanciavo i fiori a mia sorella che li raccoglieva.
Una volta svuotato il giardino dei suoi fiori più belli, eccitate dal ricco bottino, facevamo il giro degli amici per condividere la nostra ricchezza. Alcune le portavamo a casa, altre persino in chiesa alla Madonna, per l’appunto, in fondo, era grazie a lei che ci stavamo divertendo come pazze, e poi, “Perchè non far felici anche i miei amici frati francescani?” Erano affabili e mi gratificavano enormemente erano persino convinti che fossi insuperabile nel comporre bouquets di rose per la Madonna.
A chi ci domandava da dove provenisse tutto quel ben di Dio, rispondevamo che ci erano state donate e tutti parevano crederci. Poveri giardini! Ogni giorno, durante quel mese benedetto, subivano una potatura sommaria che spesso ci lasciava con le mani piene di graffi perchè a quei tempi le rose oltre all’essere magnifiche, profumate e non rifiorenti, erano pericolosamente spinose.
Oggi tornando al ricordo di quei giorni mi auguro di non essere considerata solo una volgare ladra di rose e di bambini, spero vivamente che qualcuno sappia cogliere in quella piccola ladra di quei giorni , una romantica ladra di bellezza e amore.
- Blog di Antonella Iurilli Duhamel
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