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23- Quante cose avrei da dire

Braccia che stringono le mie ginocchia, seduto, la schiena contro il muro. Davanti, solo il muro bianco. Cerco con lo sguardo: forse non è tutto bianco. Cos'è quella? Una macchia nera? Mi alzo e mi avvicino appena un pò per vedere se ho ragione. No, è tutto bianco. Torno a sedermi come prima, con le gambe strette contro il petto e gli occhi che cercano qualcosa che non hanno già visto di quella stanza tutta bianca e sempre uguale.
Ricordo qualcosa che non sia di questo colore? Si può dimenticare il profumo delle fragole? Il rosso lo ricordo: è uno dei colori che mi fanno usare quando vado nella sala ricreativa, anche se di ricreativo non c'è quasi nulla. Delle sedie bianche, con un tavolo bianco, un foglio bianco da poter colorare, ma nessuna voglia di farlo. Non saprei nemmeno cosa fare perchè non ricordo nulla, nulla che non siano queste pareti.
Ecco che arriva di nuovo: sto per avere una crisi. E' così che la chiamano qui.
L'odore di lisoformio che usano per pulire le stanze è così pungente e costante che ormai ne ho perso la sensibilità: non lo sento più, è come il ronzio di sottofondo che accompagna le uggiose giornate autunnali. Ti prende e non ti lascia andare come il dolore che provi ogni giorno stando qui: ti senti sempre solo ed è così intenso che alla fine ti ci abitui.
Mi dondolo un pochino, avanti e indietro: è un ritmo regolare che calma il mio respiro.
Forse l'ultima volta che ho visto qualcuno che non fosse un medico era stato dieci anni prima. Non so contare il tempo, non da quando sono qui: se lo chiedo me lo dicono, ma che differenza fa? Sono anni che scorrono senza senso e servono solo a ricordarmi che da qui non ne uscirò mai. Mai. Mai. Mai.
Chiudo gli occhi. Mi dondolo ancora un pò più forte, solo un pochino più forte, cercando di non pensare a quel mai che martella nella mia testa e mi mette tanta paura.
I miei genitori erano stati tanto buoni a venire a trovarmi: ricordo ancora il viso di mia madre che con un sorriso mi annunciava che è nato Davide, un piccolo fratellino con il nome di un angelo. Mio padre mi aveva spiegato che era solo un bambino di pochi mesi e che quando fosse cresciuto sarebbe stato difficile spiegargli che aveva un parente in un manicomio. Parente. Era così che mi aveva chiamato. Mi aveva detto che non sarebbero tornati tanto spesso e che lui aveva bisogno di cure. Io potevo capirli?
Avevo dato solo una occhiata alla guardia che visionava gli incontri e i suoi occhi erano freddi: trasmettevano solo quello che avrebbe potuto farmi se avessi risposto male.
Potevo capirli? Avevo risposto con un cenno di assenso e basta. Quando erano andati via avevo pianto. Non avevo urlato o strillato come mi era capitato di fare altre volte. Mi ero messo nello stesso posto in cui ero ora e avevo lasciato scorrere una lacrima dopo l'altra. Erano quelle a segnare insieme alle mie mani il vuoto che provavo.
Non ho fatto niente mamma. Non ho fatto niente mamma. Io non ho fatto niente mamma.
Ripeto quelle parole nella mia testa e una lacrima scende ancora. Se sono qui da dieci anni, Davide adesso è grande.
Mamma ho paura. Mamma mi manchi. Mamma sono solo.
Voglio conoscere Davide, ma da quando ho fatto quei sogni non si fidano più di me. Mentre dormivo, dicevano che parlavo una lingua sconosciuta, la lingua di Satana.
Avevo solo sette anni. Sapevo parlare con Satana?
Io non parlo con il demonio, ripeto ad alta voce dondolandomi avanti e indietro ancora un pò più forte. Io non parlo con il demonio. Io non parlo con il demonio.
Ricordo le guardie che mi avevano legato e che mi avevano ripetuto questa frase ogni notte, fino a quando anche nei miei sogni, non avevo detto altro chequello che volevano sentirsi dire.
Io non parlo con il demonio. Io non parlo con il demonio.
Sento dei passi, ma non riesco a fermare il dondolio e le parole. Più mi spaventano, più si avvicinano, più il mio tono di voce si alza.
Quando apre la porta mi zittisco. E' lo stesso uomo che ogni giorno mi porta da mangiare. Anche lui ha il camice bianco: perchè tutti amano questo colore? Io non lo trovo così bello. Il verde, per esempio, quello sì che è un bel colore.
"Ti sei calmato o hai bisogno di un aiuto?" chiede sudato, con quell'odore di disinfettante addosso a cui ormai mi sono abituato. Faccio un cenno di assenso e lui indietreggia, chiude la porta e rimane lì, in attesa di un mio urlo che segni la mia crisi. E io lo accontento.
"Io non parlo con il demonio".

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