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Eravamo partiti dai “tempi che stanno cambiando” di Bob Dylan, e da Woodstock, “tre giorni di pace, amore e musica”,e siamo arrivati alle “baby-prostitute” e al “grillismo”, un coacervo di fascismo e “Flower Power” in cui non distingui l’oppressione dalla libertà.
Oggi rivedo alcune foto strappate al set di “Taxi Driver”, ove i protagonisti, De Niro e Scorsese; giovani e “alternativi” (come era allora in voga) appaiono come gli eroi di un’epica dell’esclusione, ove la forza morale dell’indignazione è ancora il cardine di una rivolta che, pure affossata nel disgusto e nella disperazione, trova tuttavia l’aire dell’urlo (quello di Ginsberg), del diniego di appartenere al disvalore, alla turpitudine di una sub-cultura cui è preferibile l’emarginazione, anche a prezzo di beni e onori, piuttosto che l’allineamento.
Ora, la sub-cultura è diventata la cultura tout-court, si è universalizzata ed è divenuta l’unica, rauca voce che trabocca dal nostro mondo. Un’ode funebre intitolata alla fretta, all’incuria, alla dimenticanza. Così, non c’è più disperazione sul nostro orizzonte. La disperazione è scomparsa, si è estinta. E con lei, l’offesa, l’orgoglio e il vanto di sentirsi offesi dal mondo ctonio, dal mondo sotto le macerie in cui inesorabilmente naufraghiamo.
Viviamo così in un firmamento senza disperazione, che però, nota bene, non è salvato. Ma è piuttosto svuotato della facoltà di soffrire, di dolersi dei propri falli, continuando a vivere in una cecità torva e ottusa, fomite di desideri estremi, insaziabili, ma anche di una muta rabbia che monta nei cuori ingabbiati nei toraci come belve furibonde dietro una grata.
La disperazione di chi era dalla parte giusta di quegli eroici anni d’afflizione, si è mutata nella rabbia cieca di un benessere senza scampo, che, lasciando scheggiare le proprie screpolature, s’ammaina nella frenesia e nella strage. E chissà, magari nell’apocalisse. E pare di sentire nel soffio del vento l’oracolo canoro di Blowin in the wind, cangiarsi nell’urlo sguaiato di un movimento che, invece per il diritto o la libertà,  si muove contro – e contro ogni cosa, senza discernimento, senza autocoscienza, nell’illusione fanatica della propria purezza, di contro alla “cattiveria” del resto del mondo. Un resto di mondo in cui affonda ogni cosa, ogni elemento, ogni civiltà: tutto è male, salvo me stesso, la mia rabbia, la mia tribù. Il movimento, che fu una apertura, si muta adesso in un NOI che esclude da sé ogni possibile innocenza, dignità o dirittura morale altrui. Un NOI tassativo, imperiale, che include solo “quelli buoni”, infangando e screditando tutti gli altri. Un NOI atroce che, dimenticandosi del “Noi” di Zamjatin e del famigerato Gott mit uns, s’insinua sotto ogni bandiera, aprendo le ostilità fra NOI e NOI, ove non v’è più nessun io… nessuna responsabilità, nessuna assunzione di coscienza. Uno scaricabarile cosmico in cui NOI è sempre immacolato e l’altro sempre colpevole. Una rimozione collettiva degli errori e delle carenze che coltiviamo insieme come popolo, come umanità, e che ci rimpalliamo puerilmente l’un l’altro per non voler ammettere la fondamentale uguaglianza della nostra depravazione. Un’uguaglianza dal basso della nostra indole pezzente, della nostra “coscienza civile” rabberciata e faziosa.
Ciò che più duole è dover rinvenire, come scorie, alcuni frammenti teorici espunti dall’ottica del Mouvement di allora, tra le frattaglie pseudo-dialettiche dell’odierno movimentismo. Persino i grotteschi avvoltoi del cosiddetto “partito-azienda” (dell’autocrate di Arcore) si ornano dello stemma di “movimentisti”, “idealisti” di una cosa rapace e scervellata come il Neocon.
Ecco. è triste e offensivo che questa marmaglia sia stata capace, per decenni, di imbrigliare la modernità e farla passare, loro, passatisti liberticidi e conservatori fin nel nome, per una propria araldica. Allora, proprio per rintuzzarli nella loro melma, val la pena di lanciare un “messaggio nella bottiglia”, un pro-memoria persino superfluo, ma  ineludibile per gli ostinati e arroganti “perditori” di memoria.    
Il Mouvement degli anni ’60 in America, sicuramente non era comunista, ma era comunque una cosa della sinistra. Era pacifista e lottava per i diritti, per i neri, per le libertà. In Europa, e segnatamente da noi in Italy, era più marcatamente politico e quindi ancora più di sinistra. Esso riuniva gli anarchici, i marxisti, tutta la sinistra extraparlamentare e i “Figli dei fiori”, i seguaci dell’Orientalismo in crisi mistica, i rocchettari in crisi d’astinenza e via dicendo. Erano questi che avevano “fatto il ‘68” (che poi si trattasse di un marxismo da baraccone, ovvero di pulsioni libertarie irrazionali, come in Timothy Leary, è un altro paio di maniche). Le destre, prima di appropriarsi dei comportamenti, dei termini e persino del look sessantottini, non è che avessero “fatto il ‘68”. Non avevano fatto un accidenti, se non osteggiare casomai quelle idee e tentare in ogni modo di farle abortire. Esemplare in tal senso il circuito musicale: si muove all’unisono con le istanze del mouvement, fa tutt’uno col contropotere e si arriva a Woodstock, dove le case discografiche non ci sono neanche, giudicandolo con un sommo disprezzo morale (e facendo la fortuna di quelle alternative, come  la Cotillon che ne pubblicherà tutti gli universali successi). Gli interessi si mossero solo dopo il successo, e se da un lato attrassero a sé alcuni dei protagonisti, coinvolgendoli nello stessa perversa spirale dello star-system hollywoodiano, dall’altro spingevano affinché la scena musicale si spogliasse dei suoi aspetti culturali e rivoluzionari e venisse riassorbita nel circuito del denaro. Così passammo da Bob Dylan e Neil Young alla disco-music e di lì a fenomeni da baraccone, come Madonna o Michael Jackson. Il pacifismo si tinse di tenebre, il Rock si fece portavoce di malessere e autodistruzione, come in Lou Reed o in Kurt Cobain. E il cantante Charles Manson si presentò una notte a casa Polansky…
Quella notte segna una cesura: fu quello il momento in cui il sogno floreale si Woodstock, passando al demoniaco, si capovolse di segno e trasformò la leggenda “peace, love & music” in un incubo nazista. Dando la stura alla razzia culturale delle destre, che fremevano nell’ombra, nell’attesa della mano buona che gli avrebbe restituito il governo del gioco.
Così, da noi, con in mano le leve culturali dell’addomesticamento di massa, il pagliaccio di Arcore si fece passare per “moderno”, plagiando una intera generazione e dandogli ad intendere che lui, proprio lui!, rappresentava quell’America progressista di cui era invece il beccamorto. E ancor oggi siamo costretti ad assistere al lugubre corteo dei suoi servi-becchini, sfilare davanti ai mass-media con in bocca le parole rubate a quel nostro universo lontano, e addosso i gesti, le movenze e l’estetica dell’epos oramai estinto di ben altre ed eminenti intelligenze.    
 

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