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Logica di un genocidio

La lunga marcia di Capo Giuseppe
 
Dopo la sconfitta subita al Little Big Horn, spinti dal desiderio di vendetta, coloni e soldati operarono ogni tipo di atrocità verso gli indiani. Ma qualcuno iniziava a dubitare che la “politica dello sterminio” fosse il modo più saggio per risolvere la questione indiana. Anche una certa stampa liberale cominciò a non essere più daccordo con la politica dei massacri e a non giustificarli più.  
In un ampio territorio che si estendeva negli attuali stati dell’Indaho, dell’Oregon e di Washington, vivevano i Nez Percé (Nasi Forati), una tribù di cacciatori e di pescatori, che un tempo aveva avuto l’abitudine di forare il naso dei giovani guerrieri a scopo rituale. I Nez Percé inizialmente si mostrarono amici dei bianchi e permisero la creazione di piccole comunità agricole nel loro territorio. Ma la situazione si modificò radicalmente quando nelle loro terre vennero scoperti alcuni giacimenti d’oro. Appena un anno dopo la scoperta, nonostante le proteste degli indiani, nella regione sorgeva la città di Lewiston, di 1200 abitanti. Tuttavia i rapporti fra i Nez Percé e i coloni bianchi rimasero buoni fino al giorno in cui - dopo la battaglia sul Little Big Horn - il governo americano decise di adottare una politica più dura nei confronti degli indiani e di estendere il sistema delle riserve ai territori del Nord-Ovest.
Al comando dei Nez Percé vi era un  indiano di alta statura, nato nel 1840, valoroso guerriero e splendido oratore, di nome “Tuono-Che-Romba-Nelle-Montagne”, da tutti conosciuto come Capo Giuseppe per la sua antica amicizia con i bianchi.
Nel 1877, in seguito al rifiuto di Capo Giuseppe di accettare le richieste dei bianchi che gli chiedevano di abbandonare la valle in cui viveva il suo popolo nelle mani dei coloni e di trasferirsi in una riserva, il governo degli Stati Uniti gli mandò contro il generale Howard. Howard veniva considerato amico degli indiani, infatti sembra che considerasse un grave errore rubare quella valle ai Nez Percé, ma si vide obbligato a far eseguire questo ordine.
Il 3 maggio 1877 Howard organizzò una conferenza con il capo dei Nez Percé per accordarsi sul trasferimento della tribù in una riserva. Capo Giuseppe, rispondendo alle offerte del generale, pronunciò le celebri parole:
“Voi mi chiedete di arare la terra, Dovrò dunque recidere col coltello il seno di mia madre? Se lo facessi, alla mia morte essa non raccoglierebbe più il mio corpo... Voi mi chiedete di tagliare erba per fare fieno e venderlo, come fanno i bianchi. Come oserò dunque tagliare le chiome a mia madre? Io voglio che la mia gente rimanga qui con me. I morti ritorneranno in vita, i loro spiriti si reincarneranno. Noi dobbiamo restare, perché qui fu la dimora dei nostri padri: perché qui dobbiamo attendere d’incontrarci con essi di nuovo, nel seno della nostra Terra Madre”.
Il generale Howard tagliò corto ed ordinò a Capo Giuseppe di riunire la tribù e di trasferirsi in una riserva di sua scelta entro trenta giorni dalla data dell’ordine. L’ultimatum era di impossibile realizzazione: il bestiame del suo popolo era sparso per tutta la valle ed il fiume Snake era in piena. Giuseppe chiese una proroga fino ad autunno, ma gli venne negata: tutto ciò che fosse rimasto nella valle dopo i trenta giorni sarebbe stato confiscato dall’esercito. Capo Giuseppe, con la sua gente circondata dai soldati, fu costretto a piegarsi all’ordine del generale e scelse di partire per la riserva.
Tutto sembrava risolto, quando un atto di violenza da parte dei bianchi scatenò la guerra. Alcuni mesi prima un Nez Percé era stato ucciso dai coloni e la tribù non aveva potuto vendicarlo. Erano i primi di giungo e, come era stato loro richiesto, gli indiani stavano smontando il campo e raccogliendo la mandria dei cavalli per mettersi in marcia. Avveravano dovuto abbandonare gran parte del loro bestiame, perché non erano riusciti a radunarlo, e si stavano accingendo  ad attraversare lo Snake in piena. Mentre erano impegnati in tale rischiosa operazione, sopraggiunsero i coloni, che iniziarono a razziare il loro bestiame uccidendo anche un ragazzo. Capo Giuseppe non riuscì a trattenere oltre i suoi guerrieri e quella stessa notte assalirono un villaggio nell’Indaho, uccidendo una ventina di persone. Le truppe ricevettero l’ordine di reprimere immediatamente la rivolta dei Nez Percé, ma il loro compito si rivelò molto più difficile del previsto.
Il primo scontro avvenne presso il torrente Hangman e si concluse con la morte di 34 soldati. Il 4 luglio l’esercito americano affrontò di nuovo i Nasi Forati e perse altri tredici uomini. Il 14 luglio il generale Howard in persona venne battuto da Capo Giuseppe e lasciò sul campo altri undici uomini.
Ebbe inizio in quel giorno l’epopea dei Nasi Forati, uno dei momenti più straordinari ed esaltanti dell’intera storia delle guerre indiane. Al comando di appena un centinaio di guerrieri e gravemente ostacolato da 350 donne e bambini - con il generale Howard alle spalle, il generale Miles di fronte ed il colonnello Sturgis con gli scout Crow sui fianchi - Capo Giuseppe seguì il corso del Clearwater e, attraversando le Montagne Rocciose, raggiunse il Montana; qui, al valico Big Hole, cambiò direzione, attaccando i suoi inseguitori ai quali inflisse una durissima sconfitta. Successivamente penetrato nel Parco Nazionale di Yellowstone, Capo Giuseppe attese Howard in posizione favorevole, uccidendo sessanta soldati e impadronendosi persino di un cannone. Poi i Nasi Forati fuggirono nel Wyoming e di nuovo nel Montana, da cui speravano di raggiungere la salvezza,  oltre il confine canadese. Tuttavia, all’uscita del parco dello Yellowstone, la banda di Capo Giuseppe era stata intercettata dagli scout di Sturgis e aveva perduto alcuni guerrieri e quasi tutta la mandria di cavalli. Distanziati gli scout, i guerrieri di Capo Giuseppe, ormai sfiniti, ridotti a poco più di cinquanta, costretti a trasportare i feriti e i familiari, attraversarono il Missouri e si spinsero nelle montagne Bearpaw. Ma nuovi nemici li attendevano: giunti a pochi chilometri dal confine canadese, i Nasi Forati furono infatti circondati dalle truppe del generale Miles, che li attaccarono con decisione, catturando i cavalli e uccidendo molti guerrieri.
Costretto a scegliere fra un nuovo tentativo di fuga con il conseguente abbandono dei feriti  delle donne e dei bambini, e la resa, Capo Giuseppe decise di consegnarsi al generale Miles con tutta la sua gente. Il 5 ottobre 1877, mentre imperversava una bufera di neve, Capo Giuseppe si arrendeva agli americani con queste parole:
“Dite al generale Howard che io conosco il suo cuore. Anch’io tengo nel cuore le parole che egli mi ha detto. Sono stanco di combattere. I nostri capi sono morti... I vecchi sono tutti morti. Adesso sono i giovani che dicono si o no. Colui che guidava i giovani (il fratello di Capo Giuseppe) è morto. Fa freddo e non abbiamo coperte. I bambini stanno morendo di freddo. La mia gente, o parte di essa, è fuggita sulle montagne, ma non ha né coperte né cibo. Nessuno sa dove sono ora... forse stanno morendo di freddo. Voglio avere il tempo di cercare i miei bambini e vedere quanti ne posso trovare. Forse li troverò fra i morti. Udite, miei capi. Sono stanco. Il mio cuore è ammalato e triste. Da dove ora sta il sole non combatterò più”
quindi pianse coprendosi il volto con la coperta che portava sulle spalle.
Secondo la logica del genocidio i Nasi forati furono smistati in zone malariche e in deserti dove morirono come mosche. Capo Giuseppe venne allontanato dalla sua gente perché era ritenuto troppo pericoloso e morì in una riserva nel 1904. Il medico del presidio diagnosticò che era morto di crepacuore.
Dal giorno dell’assalto al villaggio dell’Idaho, la banda di Capo Giuseppe aveva percorso a piedi o a cavallo millecinquecento chilometri, inseguita da oltre cinquemila soldati, che potevano spostarsi in treno e ricevere informazioni con il telegrafo che li aggiornava continuamente sui movimenti degli indiani.
Articolo pubblicato su Il Giornalino-Rimini. Da una ricerca fatta sul libro Hoka Hey Hey- La linea Editrice.
 

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