Scritto da © Mariagrazia Tum... - Gio, 16/02/2012 - 13:27
in poche parole voglio tentare di sfatare il mito della tanto osannata quanto utopistica meta dell'uguaglianza; forse a causa dell'atavica (e comprensibilissima!) incredulità e rabbia rispetto a concrete condizioni di palese disuguaglianza che affondano radici già in epoca presocratica (li avete mai visti l'uomo del popolo e il nobile parlare o supporre di pari opportunità?), a salire il corso della storia, è tutto un seguire di divergenze talora spinte alle controversie armate per raggiungere la cosiddetta uguaglianza, medesime opportunità di valore, pari possibilità d'espressione, estensione del diritto di voto all'intera popolazione, come se lì si giocasse l'intera partita dell'Uguaglianza.
Certo, passi avanti se ne sono fatti, se solo poco più di 70 anni fa alle urne erano ammessi i soli uomini di ceto medio e ricco, ma il percorso, per una meta raggiunta, ne presenta altre non solo di difficile attuazione, addirittura di complessa definizione.
Intendiamoci, innanzitutto, sul termine di uguaglianza; a nessun uomo di buon senso verrà mai in mente di definire il termine pescando nell'irrazionale somiglianza di noi tutti, chè un semplice sguardo d'intorno ci mostra, e senza nemmeno troppe difficoltà, una palese diversità di tratti, di caratteri, di forma-mentis: forse 7 miliardi di individui calcano il suolo terrestre e sfido chiunque a mostrarmi un essere che possa essere definito uguale a un altro (no, non citatemi i gemelli omozigoti nè i sosia, perché anche quei dna che estrinsecano linee d'apparente estrema somiglianza sono, per così dire, internamente differenti l'un l'altro). Io, ad esempio, sono castana e ho gli occhi scuri, ho le mani di una data forma, mia figlia ha preso dal padre, che a sua volta ha preso dalla madre, che ha tratti in comune (ma mai sovrapponibili) al padre e via dicendo; proviamo, dunque, ad allargare al potenziale infinito questa semplice osservazione e facilmente realizzeremo che nessuno di noi, vivaddio, può definirsi uguale ad un altro essere, simile, al più.
Tolta di mezzo questa imbarazzante ovvietà, non ci resta che affrontare direttamente la questione, inoltrandoci nel nocciolo della faccenda ; l'uguaglianza, quella legale per intenderci, è la condizione di riconosciute uguali opportunità, la possibilità, cioè, stabilite le differenze di cui sopra (differenze che afferiscono ovviamente anche a dati di personalità più estesi di quelli della mera definizione fisica), di godere di medesime possibilità di agire nel mondo, di lasciar traccia di sè.
Il nero del Sud Africa, cioè, a parità di condizioni di un collega bianco che si presenti con lui presso il medesimo datore di lavoro, e del primo possedesse un curriculum più nutrito, deve poter vedere garantito il diritto al posto; cose che appaiono scontate, oggi, (ma nemmeno troppo!), se pensiamo che poco più di 40 anni fa un certo signore dalla pelle nera, immigrato nell'allora America segregazionista, tal Martin Luther King, venne ostinatamente bistrattato (e anche molto amato, ad onor del vero!), fino alla morte per mano di un fanatico che non si lasciò confondere dalle parole piene di pathos e di fervore che traboccavano dall'indole caparbia e decisa di quest'uomo che segnò notevoli passi in avanti in tema di diritti civili.
Di passi se ne sono fatti, ma l'uguaglianza, quel termine che imperterrito continua a campeggiare lungo i permietri delle aule di tribunale, a voler idealmente orientare non solo l'andamento dei processi lungo la via della correttezza legale, ma tutta una pratica del vivere civile che dal rispetto dell'uguaglianza estenda i benefici in ogni suo ambito, fino a concretarsi pienamente nella Giustizia, resta sostanzialmente una chimera.
Se a parole (e a dettami del codice civile) essa è garantita come meta cui stabilire la bontà o meno delle azioni compiute a scapito di una persona o di un gruppo etnico, nella sua meno superficiale accezione essa è una pratica di fatto bandita dal parterre del nostro vivere umano.
Chi può onestamente affermare, ad esempio, e si tratta di un esempio tra mille, che un uomo ricco, del Nord del mondo, che commetta un'infrazione di media entità, e possa permettersi di tradurre in tribunale a sua difesa i migliori avvocati sulla piazza, sia "uguale" ad un simile nero che abbia sulla coscienza il medesimo reato e non possa avvalersi che del primo venuto, il peggio conosciuto, il meno pagato? chi può riconoscere, senza tema di smentite, che un ragazzo della buona borghesia, con genitori abbienti che gli consentano il lusso della frequenza delle migliori università, dei migliori docenti, di un nome altisonante che gli acceleri il percorso verso la riuscita professionale una volta abbandonate le aule scolastiche, non sia facilitato rispetto ad un amico con le stesse capacità intellettive e medesima passione per gli studi, quando la vita domanderà loro il conto, separatamente, di qualcosa che bypassi il merito?
chi sa levare una parola (non di sdegno, ma di leale ammissione di questa, a mio parere, incontrovertibile realtà) che evidenzi quanto mi pare di avere legittimamente dimostrato, secondo dati di realtà a disposizione di tutti coloro che osservino il mondo con occhi meno incantati di quando il mondo l'hanno veduto per la prima volta?
l'uguaglianza non è una parola vuota, e non mi sogno nemmeno di pensarlo; credo, però, che ancora occorra un lungo cammino di presa di coscienza di quanto noi tutti ( e leggi adeguate di conseguenza) dobbiamo fare perché il percorso possa dirsi compiutamente realizzato (mai del tutto concluso, ci saranno sempre zone d'ombra, meno uguali di altre o più uguali di altre ancora, bisognose nel tempo di realizzarsi nella luce accecante della riuscita quasi perfetta, perfezione che si deve intendere come tentativi di approcciarsi al Meglio).
Raggiungessimo la perfezione, il mondo collasserebbe nella propria impotenza di rigenerare non senso e, dunque, di creare tensione verso il senso; accontentiamoci di una discreta posizione di benestare nel mondo, come a tutti si conviene.
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