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vita e il suo contrario

Avevo camminato per ore, in quella giornata assolata, badando solo a non capitombolare distratta lungo i rami disseminati sul terreno impervio che dalla mia casa conduce a viste meravigliose, solcate solo dal terso del cielo e attraversate dal profumo degli abeti silenziosi che baciano senza energia i fumi distratti delle ciminiere delle fabbriche mezzo abbandonate sulla via.
Come di consueto mi inerpico voluttuosa sulla folle mania di abbandonare la mente a percorrere viatici impossibili, a seguire balzane volte di pericolose e insinuose rovine di ricordi che mi affaticano e sfiancano senza ragione; quel giorno era la volta della vita e della morte, nientemeno.
Due discorsetti senza capo né coda si affastellano veloci, ognuno in direzione opposta all’altro, senza soluzione di continuità, con il semplice intento di rovinare quei momenti di calma apparente.
Non sono, ahimé, baciata dalla fortuna della fede, non sono scevra, più o meno come tutti, dalla paura del distacco da questa vitaccia di cui fatico a comprendere le origini e le ragioni.
L’occasione alla solitaria disquisizione filosofica mi è fornita dalla visione di un uccelletto disteso a terra, forse morto di morte naturale, forse colpito da qualche improvvido cacciatore, probabilmente a scarso di inventiva o al colmo di un attacco parossistico di inutile violenza.
Fatto sta che quell’inerme creatura distesa sul selciato scomposto e dissestato mi provoca l’annosa questione del perché dell’esistenza, e del perché della fine e delle recondite ragioni, se mai ne esistano di esplicite, di una vita trascorsa a girovagare indisturbati tra le nuvole di passaggio, all’interno degli interstizi bigi e colorati di un cielo sospeso tra le stelle, a covare probabilmente sogni di visioni celestiali o meditare  presagi di futuro ridente per poi rovinare irrimediabilmente sul selciato duro di una pietra estiva, senza nemmeno il conforto di un fratello in volo ad asciugarti le lacrime, il sangue che cola impietoso sull’asfalto indifferente.
 

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