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Tutto del maiale faceva risuscitare i morti - Luisito Bianchi

<< Il giorno del maiale
«Uh, che schifo» mi pare di sentirvi e di vedervi, con la bocca e il naso atteggiati a disgusto. Aspettate un momento. Voi i maiali li avete visti qualche volta solo stipati nei camion, quando li portano al macello, e comprendo il vostro disgusto che è anche il mio. Puzzano. E poi sono sporchi. E poi si vede che sono ammaestrati a fare la parte del maiale, ma in realtà non sono maiali, sono un ammasso di grasso e di carne, senza personalità.
Invece il maiale che si uccideva a metà coi parenti, o anche a terzo come comandavano le necessità della famiglia e il portafogli, godeva della personalità degli animali di cortile, allevato come le galline, il gatto e il cane, ossia, fin dai suoi primi giorni, coccolato, palpato di sopra e di sotto, grattato per fargli piacere, servito ogni giorno anche di grande festa, alla stessa ora, in un trogolo fumante di polenta diluita; chiamato affettuosamente con nomignoli quasi fosse un gattino da focolare, oggetto d'ammirazione o d'invidia dei vicini, visitato dagli uomini ogni mattina e sera, causa di compiaciuti sorrisi a ogni chilo in più che l'occhio esperto e una palpata da intenditore sapevano subito cogliere, materia di lunghe conversazioni nelle stalle e nelle osterie; insomma, un personaggio importante.
«E avevate il coraggio d'ucciderlo?» sento ancora dirvi, e giustamente. Abbasso la testa, pieno di vergogna per la nostra insensibilità, e confesso in sovrappiù che noi ragazzi, ma anche gli adulti, aspettavamo con desiderio quel giorno. Mah, sono misteri del cuore umano, non ancora chiariti nemmeno oggi, se penso a tutte le armi che ci sono in giro, capaci di ammazzare non solo i maiali di tutto il mondo in un colpo solo, e alle commosse proclamazioni di fraternità fra tutti gli uomini! Comunque, non dico a discolpa ma almeno a stiracchiata comprensione di noi ragazzi, non eravamo noi a ucciderlo; e poi, quella mattina mia zia Rosita che era la più affezionata al maiale perché se ne prendeva la cura quotidiana, piangeva sempre, di nascosto ma non tanto, con quei suoi occhi buoni di zitella volontaria per amore altrui, e diceva: «Mi rincresce, gli ero affezionata». E vi posso garantire che mia zia poteva rappresentare da sé sola la parte migliore di tutta l'umanità.
Sia come sia, capivamo che si cominciava in paese la carneficina dalla prima assenza d'un compagno da scuola. Alla domanda della maestra sul perché di quel posto vuoto, c'era sempre qualcuno che s'alzava e rispondeva: «Perché oggi uccide il maiale». «Ah,» faceva la maestra «siamo già in inverno, vi darò qualche pensierino sul giorno dell'uccisione del maiale» e forse faceva anche lei qualche pensierino ai salami e cotechini che avrebbe ricevuto in dono. Non era per avere qualche svista benevola nella correzione dei nostri pensierini, ma proprio perché non si poteva uccidere il maiale senza farne godere un poco anche alla maestra che non aveva tempo di allevarne uno. All'arciprete no, l'arciprete aveva già la sua parte il 17 gennaio, giorno di sant'Antonio abate, patrono dei maiali e delle altre bestie, per paga del disturbo di andare a benedire
le stalle, e poi toccava ai padroni che non s'accontentavano d'un solo maiale; la terza autorità dopo la maestra e l'arciprete, ossia il podestà, che se li facesse dare dal fascio i salami, che la gente aveva già fin troppo da pensare per casa sua.
La maestra dava per scontato che un ragazzo non andasse a scuola in un giorno simile perché poteva servire ad aprire la mente meglio che una settimana di scuola, e così anch'io presi parte, diverse volte, alla festa. Di solito era una mattina secca, col cielo grigio e freddo che sembrava stesse lì per spiare che cosa capitava su quell'aia di cemento, e io alla finestra della cucina più intento del cielo, con la schiena tutta tepore per il fuoco del camino alle prese con un grosso paiolo d'acqua.
Il norcino aveva appena bevuto un grappino per propiziarsi tutti gli spiriti in corpo, ed era in agguato sull'aia con un pugnale in mano da pirata della Malesia. Il nonno aveva impugnato il paletto del porcile in fondo all'aia («Sei pronto?» «Sono pronto»), lo tirava, e il maiale, che spingeva da tempo all'usciolo col muso perché era già passata l'ora del primo pasto, si trovava tutto d'un tratto in mezzo all'aia, si fermava un momento impaurito di quel vuoto, tentava di correre avendo fiutato istintivamente un pericolo, ma il norcino gli era già sopra con un colpo preciso di pugnale al cuore. Il maiale s'accasciava, agitava per due o tre volte le zampe quasi mi volesse salutare, e restava immobile. Poteva capitare che il colpo non fosse mortale, e allora l'aia si trasformava in una giostra forsennata, col nonno salito in tutta fretta sulla scala del fienile e il norcino a far da palo in mezzo e a sudare freddo perché, con un maiale scatenato e un pugnale nel fianco, c'era poco da cantare.
La giostra rigava di sangue l'aia, le galline nel pollaio sopra il porcile facevano la parte del coro in una tragedia greca, e io alla finestra a dire mentalmente avemarie per il norcino e il maiale. Ero sempre esaudito: il maiale, dopo un ultimo mezzo giro, crollava, il norcino era salvo e cominciava a bestemmiare in risposta alle mie avemarie. Il nonno, ridendo, scendeva dal fienile e l'aia si popolava di uomini e donne di casa, e di vicini, tutti pronti a dare una mano per sollevare il maiale sull'asse, portare il paiolo dell'acqua bollente, il secchio di rame per raccogliere il sangue, stendere le setole raschiate su fogli di giornale; e io ancora inchiodato alla finestra, con un'avemaria non finita sulla lingua e una gran voglia d'essere utile in una partita che era tutta di adulti.
«Fai ancora a tempo ad andare a scuola» mi diceva mio padre entrando in cucina col primo pezzo di maiale squartato. «Ormai hai già visto tutto». «Lascialo a casa, può essere l'ultima volta che vede fare i salami, chissà se lo teniamo ancora l'anno prossimo con quello che costa mantenerlo» (il maiale s'intende; ma quel giorno non lo si nominava mai, tanto non poteva essere che lui!) diceva mia madre giungendo col secondo pezzo; e io, esultante, correvo dal norcino sull'aia per chiedergli se era mai capitato che «lui», con il pugnale nel fianco, avesse sbranato un uomo per vendicarsi. Il norcino rideva, mi schiacciava l'occhio: «Va' là, portami piuttosto un bicchierino di grappa che mi debbo riscaldare».
Tutta la giornata la si passava in cucina, il norcino a tagliare, macinare, insaccare maiale, e il gruppo delle donne, accanto al fuoco, a lavare con aceto e vino bianco le budella per l'insacco, tagliarle e cucirle, a preparare ciccioli, salare lardo, fondere strutto. Di tutti io ero il più indaffarato a portare a termine tre operazioni nello stesso momento: giocare col fuoco, solleticandolo con un bastone perché mi regalasse manciate di faville, guardare il norcino che maneggiava con incredibile sveltezza coltelli affilatissimi, non perdere una parola del discorrere delle donne facendo finta di non ascoltare.
A ossa ben scarnificate, cominciava per me la parte del protagonista. La nonna ne faceva alcuni cartocci con carta gialla da macellaio, li metteva in una sportina, me la consegnava con mille raccomandazioni perché non mi fermassi a giocare lungo la strada e ricordassi i destinatari: «Questo è per la Lena, questo per la Rosa. Che godano anche loro». «Vuoi che non sappia?» dicevo io per darmi un contegno di fronte alla donne. «Eh sì, è già un ometto» diceva quella che con l'ago dava un colpo al budello e con la lingua un altro al prossimo. E io ero contento di quell'apprezzamento.
In cucina c'era un profumo che penetrava nei pori, nei muri e nelle travi: aromi di aceto e di vino bianco, afrori di aglio, fritto di ciccioli, sferzate di pepe e di altre spezie. Adesso è difficile trovare un salame con l'aglio, dico di quello calibrato con l'occhio da bilancino di farmacista, ma allora non c'era norcino che non ne avesse il segreto. «Vedrete,» diceva annusando il primo salame con l'aglio «questo fa risuscitare i morti».
Del maiale tutto faceva risuscitare i morti. Mio nonno parlava di morti facendo sparire, sotto i baffi all'Umberto I, un pezzetto di codino, mia nonna spremendo un cicciolo, mia madre intingendo la polenta nel sanguinaccio profumato di spezie, mio padre addentando una zampetta. La zia non nominava né morti né vivi e s'accontentava del piatto che le preparava la nonna; e io mangiavo di gusto perfino il riso con le verze per amore delle briciole di carne che s'erano staccate dalle ossa riservate per il brodo.
Alla sera, salami, cotechini, coppa, pancetta penzolavano dal soffitto d'una stanzetta col camino acceso, perché per asciugare i salami non basta solo il calore d'una stufa, ci vuole proprio la compagnia del fuoco. A guardarli al riverbero della fiamma, ordinati e legati che sembravano il colonnato di San Pietro, non si sarebbe mai detto che un maiale avesse addosso tanta roba. «È un bel baldacchino» diceva mio nonno. «Un baldacchino che non cambierei con quello dei letti di principi e re» aggiungeva mio padre. >>
 
(Luisito Bianchi, “Le quattro stagioni di un vecchio lunario”, Milano, Sironi, 2010, pp. 31-32)
 
 

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